Attualità
3 gennaio, 2011

Ma cosa fanno i cinesi in Italia?

Non solo ristoranti e negozi di chincaglieria: gli immigrati dalla Repubblica popolare adesso fanno anche gli studenti, i professionisti e soprattutto gli imprenditori. Rompendo l'antico isolamento delle loro comunità

Non ci sono "estranei" in giro, non ci sono negozi di souvenir e nemmeno palloncini rossi appesi agli stipiti dei ristoranti. Quella di Prato non è una Chinatown per turisti: è un pezzo del sud della Cina trapiantato in un lembo di Toscana.

In piazza, sulla vetrina di un piccolo supermercato, è appeso un grande monitor blu su cui scorrono, in cinese, offerte di lavoro: operai, segretarie, commesse, modiste. Una moltitudine di giovani stretti in giacchette nere di finta pelle attende con ansia lo svolgersi del rotolo elettronico, poi su un pezzettino di carta bianca si appunta un numero di telefono.

Sono le prossime reclute del pronto moda più economico e più efficiente del Vecchio continente: 3.400 aziende, 40mila addetti regolari e clandestini, due miliardi di giro d'affari. Qui, tra via Pistoiese e via Filzi, gli abitanti hanno gli occhi a mandorla davanti e dietro i banconi dei negozi, i supermercati vendono cavolo bianco e zenzero, e i parrucchieri tagliano i capelli ai bambini lasciandogli un codino sulla nuca. Queste vie sono per i pratesi i primi gironi dell'Inferno e per molti italiani la dimostrazione che ben lontana dall'integrarsi la popolazione cinese in Italia, rinchiusa nelle sue fortezze autosufficienti, minaccia di sfilarci il Paese dalle mani, un distretto alla volta.

Eppure a guardare oltre pregiudizi e titoli di giornale, a sbirciare nei negozi all'ingrosso di piazza Vittorio a Roma, a fare un giro tra le università di economia ed ingegneria di Milano, e a passeggiare tra le boutique del centro storico di Firenze si colgono i primi segnali che qualcosa sta cambiando: i cinesi residenti in Italia iniziano ad integrarsi. Un po' per voglia. Un po' per forza. E siccome l'Italia non è la California, di cinesi che parlano l'italiano meglio del mandarino ancora non vi è traccia. Ma è solo una questione di tempo.

Cominciano ad esserci persone come la quarantaduenne Hongyu Lin, assessore all'integrazione di Campi Bisanzio, un piccolo comune alla periferia di Firenze che aveva preceduto Prato nell'essere definita la Chinatown d'Italia: "Io sono la speranza che i cinesi possano accedere anche al quadro istituzionale italiano e sentirsi italiani a tutti gli effetti". Lei è arrivata in Italia appena laureata all'indomani del massacro di Piazza Tiananmen nel 1989, in cerca di un paese dove coniugare opportunità economiche a libertà democratiche. Passata per il Trentino dove il marito era stato assunto da un'azienda informatica durante gli anni del boom, ha trovato in Toscana una seconda patria. Oggi nella giunta del sindaco Adriano Chini (Pd) si batte affinché i cinesi rispettino le leggi e i costumi locali e gli italiani si accorgano dell'immensa opportunità offerta dalle seconde generazioni di asiatici. "L'intolleranza dei cittadini italiani verso i cinesi nasce dal mancato rispetto delle regole", racconta: "Ma glielo hanno insegnato gli italiani stessi a forza di assumere lavoratori in nero e a non stipulare mai un contratto di affitto. Così finisce che l'unica regola che gli immigrati imparano velocemente è quella di non pagare le tasse".

Negli ultimi anni il rapporto tra italiani e cinesi si è talmente incrinato da culminare nell'aprile del 2007 nella prima rivolta etnica della storia del Paese (contro le limitazioni imposte al commercio cinese dal comune di Milano) e, successivamente nel 2009, nella scelta (speculare) di un sindaco di destra a Prato, dopo 63 anni di giunte rosse. Ad alimentare il risentimento sono soprattutto due fattori.

Innanzitutto il successo economico raggiunto dalle comunità cinesi che hanno sfruttato non solo il fiuto imprenditoriale ma anche gli anelli deboli del nostro sistema economico - dall'evasione fiscale all'impiego di manodopera in nero. E poi l'autoreferenzialità delle comunità, in grado di aiutare i propri membri sotto ogni aspetto, dal sostegno economico a quello legale, rendendo inutile per i nuovi arrivati imparare perfino la lingua italiana. Se questa vecchia tendenza a rimanere nella propria enclave etnica era una caratteristica apprezzata dagli italiani quando i cinesi erano numericamente inferiori ed economicamente più deboli, ora che il loro status sale mentre quello dell'italiano medio scende, crea sospetti, pregiudizi e ritorsioni.

Senza contare il successo di tanti imprenditori - da Luigi Sun a Milano a Xu Qiulin a Prato - contraddice lo stereotipo classico della via italiana all'immigrazione. "Il modello Caritas con loro non funziona perché non sono vittime e tantomeno vittimizzabili", spiega Patrizia Farina, professore di Demografia presso l'università Bicocca di Milano: "Si mettono in diretta concorrenza con gli italiani".

Ma il successo economico porta con sé inevitabili cambiamenti: con la maggiore visibilità aumenta la radicalizzazione sul territorio e l'esigenza di un maggior rispetto delle leggi. "Dieci anni fa nei capannoni c'era una situazione igienica disperata e non c'erano nemmeno abbastanza posti letto per tutti: due operai dividevano lo stesso letto", racconta Lina Iervasi, capo dell'ufficio immigrazione della questura di Prato: "Adesso i datori di lavoro cercano magazzini a due piani per separare la zona notte da quella del lavoro. La situazione rimane illegale, ma è meno illegale di prima".

Le aziende che riescono a fare il salto di qualità sono ancora poche, ma sono molte quelle che non si perdono una mossa di pionieri come la Koralline di Francesco Zhang, uno dei rari marchi del pronto moda, per vedere se dopotutto una produzione di maggiore qualità e una campagna promozionale basata sulla comunicazione potrebbero avere un effetto positivo sul fatturato. "La soluzione vincente è lavorare insieme", spiega Edoardo Nesi, scrittore e assessore allo sviluppo economico della provincia di Prato: "Per battere la concorrenza dei prodotti in arrivo dalla Cina anche i cinesi che vivono in Italia dovranno alzare il livello qualitativo, di conseguenza i prezzi, e quindi potranno comprare i tessuti dagli italiani".

Per chi non vuole o non riesce a fare il salto di qualità, la via del rientro in Cina è spesso la soluzione più facile. Quegli imprenditori cinesi del Nord Italia che sono sbarcati da noi con l'intenzione di fare un rapido bottino e sistemarsi per la vita stanno facendo le valige, complici la crisi economica degli ultimi anni e la concorrenza diretta degli imprenditori della madrepatria che hanno annullato i margini delle imprese più precarie.

Tra il 2004 e il 2007 le rimesse cinesi sono quintuplicate, passando dai 335 milioni di euro del 2004 ai 1.687 milioni del 2007. "Una parte consistente è attribuibile al controesodo dei cinesi che stanno tornando in patria" alla ricerca di nuove opportunità, si legge nel rapporto del ministero degli Interni. "Ormai non si guadagnava più", spiega Marco, un imprenditore di Wenzhou, per anni in Italia, che con un socio si è appena trasferito nel Qinghai, la frontiera occidentale della Cina, per aprire un supermercato e acquistare la licenza dell'unica salina della regione: "Mia moglie e mio figli però non vogliono tornare, loro vivono bene a Modena".

A rimanere in Italia è chi si è maggiormente legato al territorio in veste personale, magari tramite un marito italiano, o attraverso i propri figli, nati e, soprattutto, cresciuti da noi. Secondo i dati del ministero dell'Istruzione, nell'anno scolastico 2008-2009 hanno frequentato le classi italiane 30.776 bambini cinesi rispetto ai 27.558 dell'anno precedente, il quarto gruppo di studenti stranieri dopo rumeni, albanesi e marocchini. E se una volta i genitori che venivano nel nostro Paese alla ricerca di un lavoro tendevano a lasciare i figli piccoli alle cure dei nonni rimasti in Cina almeno fino alla conclusione del ciclo elementare, adesso hanno fatto retromarcia. Si sono resi conto che il tardivo inserimento nel sistema scolastico italiano impediva ai ragazzi di avere un'educazione e un futuro adeguati.

Oggi l'80 per cento dei 235 mila residenti cinesi in Italia ha meno di 40 anni e il 21,7 per cento è minorenne. Così dentro le severe mura umbertine della gelateria Fassi, nel quartiere multietnico di Roma, a parlare mandarino sono gli studenti italiani della facoltà di studi orientali: i ragazzi cinesi della limitrofe scuola Daniele Manin litigano tra loro in romanaccio, con i più piccoli che alternano le due lingue mentre tengono in bilico sul cono gelato una generosa porzione di panna a dispetto del fatto che i cinesi detestano i dolci.

Insieme ai gusti alimentari, stanno cambiando anche le aspirazioni professionali. "In Italia se sei un immigrato e cerchi prospettive di crescita, l'unica via è quella imprenditoriale", spiega il sociologo Daniele Cologna: "E la cosa è tanto più facile quanto più la tua comunità etnica ti aiuta a reperire capitali e relazioni, chiedendo in cambio una fedeltà e disponibilità assoluta ad aiutare a tua volta i nuovi arrivati". Ma le nuove generazioni hanno meno bisogno di uno stretto rapporto socioeconomico con la comunità di origine e possono permettersi il lusso di rompere il cordone ombelicale perfino con la loro ambasciata, che - a differenza delle sedi consolari europee - ha sempre svolto un ruolo importante nel coordinamento della vita dei cinesi all'estero.

Parlando e pensando in italiano possono ambire a una serie di attività e relazioni precluse ai loro genitori. "I cinesi di seconda e terza generazione con titolo di studio superiore lavorano regolarmente assunti come commessi nei negozi italiani, diventano segretarie oppure traduttori: l'interpretariato è un settore in grande crescita", racconta Iervasi: "Ormai ci sono ragazzi cinesi sempre più integrati che pensano al futuro esattamente come noi. Sono loro il traino dell'integrazione".

Le boutique firmate del centro impiegano regolarmente ragazze cinesi perfettamente bilingui per trattare con il numero crescente di turisti cinesi (quest'anno un milione) che amano fare shopping nel nostro Paese; le agenzie di viaggi cinesi cominciano a rivolgersi anche ai clienti italiani; nei bar gestiti dai cinesi un occhio di attenzione viene dato a usi e tradizioni di casa nostra; nelle liste di attesa degli ospedali della capitale cominciano ad apparire cognomi cinesi. "Ho appena assistito una paziente di Wenzhou", spiega meravigliato un anestesista dell'ospedale Sant'Eugenio a Roma: "Non era mai successo che una donna cinese si sottoponesse a un intervento ospedaliero non in emergenza. Prima si rivolgevano solo ai loro dottori". Il sogno per i rampolli borghesi di origine cinese non è più o non solo l'aziendina tessile, il negozio o il bar, ma le migliori università che l'Italia può offrire: "I nuovi status symbol sono la casa, la macchina e un figlio in Bocconi", spiega Marco Wong, presidente di Associna, l'associazione nata per aggregare le seconde generazioni.

La Bocconi quest'anno conta tra i suoi studenti 134 cinesi cresciuti in Italia e il Politecnico di Milano ha visto i cinesi salire dall'1 all'8 per cento degli iscritti in otto anni. "Volevo studiare business e i miei genitori hanno scelto la Bocconi", spiega Angela Wei, 21 anni, figlia di piccoli imprenditori di Cesena, terzo anno di Economia aziendale, e, involontariamente, lancia un campanello di allarme: "Mi piacerebbe trovare un lavoro in Europa o negli Usa, oppure lavorare per un'azienda occidentale in Cina, così potrei fare avanti e indietro e guadagnare di più". Con tutto questo andirivieni rischiamo di perdere lei e i giovani come lei: se il nostro Paese non saprà offrire ai suoi nuovi ragazzi opportunità di crescita, saremo noi a mancare il treno dell'integrazione, quella nell'economia globale.

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