La tattica della fotografia è di svelare il segreto del reale, quella parte oscura e nascosta che, sino all'apparizione dell'immagine, si è resa impenetrabile e incomprensibile. La comunicazione lo dissolve, ma la sua sorpresa crea un approfondimento con cui è necessario fare i conti, con il risultato di aumentarne il mistero.
Per Diane Arbus (1923-'71) "la fotografia è un segreto sul segreto. Più comunica meno sai", per cui i suoi lavori vanno assunti come accenni a un possibile percorso per avvicinarsi a un luogo complicato, abitato da figure enigmatiche e rituali tortuosi.
Da fotografa, cerca di farli apparire dinanzi allo sguardo altrui: dispiega qualcosa di torbido e al tempo stesso di nuovo che non è migliore o peggiore, ma che metta in moto l'attenzione. In tale prospettiva la sua opera va considerata, per sua stessa definizione, un'arca di Noè in cui entrano tutti gli esseri, non importante in quali condizioni umane e fisiche, esistenziali e sociali. Sono tutti parte di una grande famiglia dove entrano gemelli e giganti, clown e politici, banchieri e attori, omosessuali o eterosessuali, artisti e bambini (al Jeau de Paume di Parigi, fino al 5 febbraio).
Soltanto che questa famiglia mascherata è segnata dall'essere "differente" dalle altre, secondo i codici e le sensibilità degli anni Sessanta e Settanta. Appare composta di freak, di "mostri" estranei agli standard di bellezza e di normalità dell'epoca. Un universo di innocenza e di dolcezza, di semplicità e di intensità la cui colpa era solo di apparire differente, cioè unico: una fotografia dedicata esclusivamente agli esseri fuori del comune.
Cultura21.06.2013
Istantanee di piombo