Tanti sono i titoli di Stato da collocare ogni mese. Ma le banche estere continuano a venderli per sfuggire al rischio di bancarotta dell'Italia

Immaginate di dover piazzare ogni mese Bot, Cct e Btp per 35-40 miliardi di euro. E di sentir dire dal presidente danese della Federazione delle banche europee Christian Clausen: "Le banche devono continuare a fare quello che stanno facendo: vendere titoli di Stato italiani per ridurre il rischio e uscire dall'epicentro della crisi". Beh, non stareste molto tranquilli. E vi chiedereste se quel maledetto differenziale tra il rendimento dei Btp e quello dei Bund tedeschi scenderà mai sotto la soglia dei 500 punti base (5 per cento) che ha superato a più riprese. Fino a toccare quota 532.

Il presidente Giorgio Napolitano ha detto a tutti i segretari di partito che, poiché il governo deve collocare almeno 200 miliardi di titoli di Stato entro la fine di aprile, è bene tenere i nervi saldi e non farsi tentare dalle elezioni anticipate. Per il presidente Mario Monti è un vero incubo: "Come farò a fermare questa frana?". È da luglio che il governo ci sta provando: due manovre che a regime (nel 2014) valgono circa 60 miliardi, una lettera di intenti all'Unione europea con ulteriori impegni per la crescita, l'invito "spontaneo" al Fondo monetario internazionale perché vigili sulla realizzazione delle misure annunciate, le dimissioni di Silvio Berlusconi in crisi di credibilità e infine l'incarico a un tecnico stimato come Monti per formare un governo sostenuto da una grande coalizione. Eppure non c'è niente da fare: il prezzo dei Btp scende perché gli investitori continuano a vendere. Se scende il prezzo sul mercato secondario il loro rendimento aumenta. E alle aste successive il Tesoro deve alzare le cedole per attirare compratori.

Così, mentre nell'ottobre del 2010 si collocavano Btp decennali a un tasso ben al di sotto del 4 per cento adesso siamo molto sopra al 6. E non sono solo i decennali a soffrire: tutte le scadenze (da tre mesi a trent'anni) scontano la sfiducia che circonda l'Italia e, più in generale, i paesi deboli dell'Euroarea. Con il risultato che lo Stato è costretto a sborsare sempre più soldi per pagare gli interessi (che nel 2011 ammonteranno a 77 miliardi circa): 8 miliardi in più nel 2012, secondo la Commissione europea, e altri 4 nel 2013.

"Perché l'Italia non è la Grecia" è il titolo di uno studio del gruppo bancario svizzero Ubs del 18 luglio scorso. Da allora le rassicurazioni in questo senso si sono sprecate ma non c'è stato verso di convincere i mercati. Che, quando si fanno prendere dal panico, smettono di ragionare e si muovono in branco travolgendo tutto quello che incontrano nella loro corsa. Già, i mercati. Un'entità astratta, per certi versi, che però mai come in questi giorni ha fatto sentire il suo peso nella vita di tutti i giorni. Speculatori, ladri di democrazia, affamatori senza scrupoli, golpisti dello spread: da sinistra e da destra sono piovuti gli insulti. Soprattutto verso gli operatori esteri che comprano e vendono titoli di Stato italiani senza curarsi delle conseguenze sul bilancio pubblico, sull'economia e sulle condizioni di vita dei cittadini. Loro guardano ai rendimenti e al rischio di non vedersi rimborsare il capitale. Il resto non conta, sono problemi di altri. "Non vedo", commenta un importante banchiere, "dov'è lo scandalo: è lo Stato italiano che si è rivolto agli investitori di tutto il mondo perché aveva bisogno di soldi. Ed è normale che gli investitori si preoccupino di tutelare i loro patrimoni: se pensano che uno Stato non riuscirà a ripagare i debiti, vendono finché possono". Secondo le ultime rilevazioni della Banca d'Italia, il 46,2 per cento del debito pubblico italiano è detenuto da soggetti esteri: sono 880 miliardi su 1.900.

È stata una scelta consapevole che risale alla prima metà degli anni '90. Dopo Tangentopoli e la fine della Prima Repubblica, Tesoro e Banca d'Italia trasformarono il mercato dei titoli di Stato rendendolo più efficiente, più liquido, più trasparente in modo che anche gli operatori esteri, attirati da tassi allettanti, lo utilizzassero in massa. Un team preparato al ministero (oggi guidato da Maria Cannata), un'ampia gamma di obbligazioni per tutte le scadenze, una piattaforma telematica moderna (Mts). Il gioco è riuscito. Oggi dei 20 specialisti che partecipano alle aste 17 sono stranieri.

Il progetto complessivo prevedeva però di portare il bilancio in pareggio e di ridurre il debito con un massiccio piano di privatizzazioni. Fino all'ingresso nell'euro il piano funzionò. Poi la tensione si è via via allentata. Tra crisi internazionali e dissidi politici interni i conti pubblici sono tornati a peggiorare. Lo scetticismo è diventato panico solo negli ultimi mesi quando i mercati hanno capito che nell'Euroarea il motto "tutti per uno, uno per tutti" vale poco o niente: un piccolo aiuto non si nega a nessuno ma quando l'impegno diventa tale da far scattare la ribellione dei contribuenti del proprio Paese meglio lasciar perdere. Adesso l'Italia è ancora lontana dal pareggio di bilancio, si è venduta gran parte del patrimonio necessario per abbattere il debito pubblico e i titoli di Stato sono detenuti in ampia misura da operatori esteri. Che, spaventati, chiedono il conto. Sostiene un altro banchiere che, con il senno di poi ovvero a causa del mancato rispetto degli impegni da parte del sistema politico, è stato un errore collocare all'estero tanto debito: "Avremmo potuto tenere i titoli in Italia, come fa il Giappone con i suoi, perché il risparmio e la ricchezza ce lo avrebbero consentito; non ci saremmo messi nelle mani degli investitori stranieri e, in emergenza, avremmo potuto tassarli. Invece siamo nella mani di Clausen che sarà impolitico ma ha detto quello che tutti i banchieri pensano". Intanto l'incombente recessione e la fuga dai Btp hanno alzato l'asticella del pareggio di bilancio: Monti dovrà trovare almeno altri 20 miliardi per centrare l'obiettivo nel 2013. E soprattutto sperare che sul mercato dei titoli di Stato torni la fiducia e si affacci qualche compratore.