La storia di questi referendum sull'acqua pubblica è una storia esemplare, che racconta la maturità della società civile. Due anni fa improvvisamente si diffuse un allarme: in Parlamento avevano votato la privatizzazione dell'acqua. Fu uno schiaffo, per tantissime persone. Proprio quelle più sensibili, che si impegnavano quotidianamente per il destino di questo paese, che si sentivano coinvolte e attente, proprio loro si erano distratte, e in parlamento era passata una decisione importantissima, che minava il senso stesso della politica, dell'azione pubblica, della tutela delle risorse e dei diritti.
Lo scoramento fu profondo ma breve. La reazione arrivò in un immediato mobilitarsi di comitati per ottenere il referendum. Arrivarono circa un milione e mezzo di firme, un'enormità e, spero non me ne vogliano i protagonisti di quella raccolta, che pure richiese tanto tempo ed energia, arrivarono con una relativa facilità.
La società civile si è sostituita così alla politica dei professionisti. C'è uno slogan che gira da qualche anno su Internet: "I professionisti hanno costruito il Titanic, i dilettanti hanno costruito l'Arca di Noè". È un bel riassunto. I professionisti ci hanno impacchettato il decreto Ronchi; i dilettanti ci stanno consegnando uno strumento efficace per rimediare a quello che si configura come un errore politico, sociale ed economico.
Bisogna dire "sì" a entrambi i referendum, perché la gestione delle risorse comuni deve stare nelle mani del pubblico. Ce lo ripetono da più di quarant'anni, da quando Garrett Hardin pubblicò "The tragedy of the commons": le risorse comuni, quelle che sono indispensabili alla vita, non devono stare in relazione con il profitto, devono essere gestite a livello partecipato e condiviso. Certo che ci vogliono le regole. Ma non possono essere quelle del mercato. Qualcuno sostiene che senza i privati non ci sono soldi da investire per rendere efficienti gli acquedotti pubblici. Come se i privati fossero accolite di mecenati che donano i loro averi per il bene collettivo senza chiedere nulla in cambio. E come se il denaro da investire non fosse una questione di scelte: i nostri professionisti della politica hanno scelto di farci votare prima per le amministrative, poi per i referendum. Costo 350 milioni di euro. Quindi i soldi li abbiamo. Quanti acquedotti sistemavamo con 350 milioni di euro?
Qui si stanno confrontando due visioni completamente differenti. Da un lato quella di chi ritiene che nessuno debba avere nelle sue mani l'incommensurabile potere di vendere agli altri quello che è indispensabile alla loro stessa sopravvivenza, di chi ritiene che le risorse comuni vadano gestite e controllate dal basso, e di chi ha appena dato prova di saper gestire e controllare dal basso con competenza e lungimiranza. Dall'altro lato la visione di chi respira corto, ragiona solo in termini di profitto e di accordi tra individui, non riflette sui tessuti culturali e sociali impattati dalle norme.
Se questo referendum non dovesse raggiungere il quorum (e per raggiungerlo occorre che nessuno dei 25.332.487 voti necessari manchi) avremo perso, in Italia, una battaglia fondamentale.
Occorre dunque andare a votare, e far vincere i "sì": per le ragioni dette finora e per un'altra, non meno importante. La politica dei professionisti ha bisogno di una lezione di democrazia: ha bisogno che i cittadini le ricordino che è lì per servire loro, e non il mercato. Votiamo "sì" per il bene comune.