Buona parte del tempo che si passa al lavoro è dedicato alla maldicenza. Domina l'invidia per chi comanda e per chi occupa posizioni importanti. La sacralità della fatica oggi è un po' attutita
È difficile capire se in questa valle di sudore e di fatiche il lavoro sia una condanna oppure la fonte di ogni salvezza e beatitudine. Nel cortile della mia città piemontese c'era una piccola carrozzeria. il padrone, sua moglie e il lavorante, dalle prime ore del giorno a sera inoltrata, recitavano nel loro dialetto: "venta el travailler, travajuma, el travail bien fait, anche Gesù Crist l'era un ouvrier". E sfasciavano, verniciavano, martellavano, perforavano quasi in trance, come quel cantante autore del verso "chi non lavora non fa l'amore", completamento di "chi non lavora non mangia". Ma è davvero così nel presente e nel prevedibile futuro?
A volte ho il dubbio, l'impressione che dietro a questo inno all'attivismo ci sia il fatto che la vita degli uomini moderni trascorre a debita distanza dal lavoro, di cui si parla moltissimo. Il piccolo scrivano fiorentino che si logorava gli occhi la notte a lume di candela è stato smentito dalla gran parte degli scrittori che ho conosciuto: Moravia, Soldati, Calvino parchi programmatori del loro tempo di scrittura, al massimo le cento righe a macchina ogni giorno che una volta fatte autorizzano alle letture, agli ozii, alle conversazioni. Mario Soldati era il meglio organizzato: "Quanti tavoli hai?", mi chiese la volta che andai a trovarlo a Fiaschierino, "tavoli come questi su cui posare carte, fogli, copie, fiori, sigarette, tutto".
Non solo nella Torino del truciolo e del tornio il lavoro a parole è dominante, dovunque gli italiani comuni, anche i più notori scansafatiche, si salutano con fieri e virtuosi "buon lavoro". Una parola domina le cronache politiche e sindacali: "il tavolo", la parte per il tutto, le trattative che in ogni angolo del paese si svolgono sul modo di lavorare.
La sacralità del lavoro, un po' attutita in questi tempi di automazione e di computer, ma fortissima e inevitabile nei giorni di Pietro Secchia e dei "lavoratori con le mani callose". La sacralità imperitura per cui in tutte le riunioni e conferenze in qualche modo attinenti al lavoro a un certo punto avveniva la rivelazione carismatica dell'operaio, eroe in carne e ossa, e il funzionario di partito lo presentava: "Ecco il compagno Ferretti, da trent'anni alle presse", e il compagno incedeva nella sala fra due ali di persone reverenti, il dio incarnato dell'operaismo.
Ma è davvero così per la maggior parte degli uomini comuni? Vediamo come passa la giornata di un uomo comune, di un impiegato, di un commesso, di un professionista. Una parte del tempo che questi uomini dedicano al lavoro passa parlando male dei colleghi, dominante l'invidia per chi comanda o per chi è nei posti importanti.
Siamo sinceri: le infinite ore trascorse nelle redazioni dei giornali, negli uffici, nelle pause di riposo o di refezione passano a parlare male dei colleghi più fortunati, in organizzazioni che si definiscono di lavoro ma che spesso dovrebbero essere chiamate macchine da critica e maldicenza del prossimo; negli eterni tentativi, infantili quanto feroci, di eliminare tutti quelli che ti fanno ombra e di procedere per purghe generali come nelle migliori dittature staliniste.
Ma andiamo al sodo, e cioè al feroce della vicenda: gli stakanovisti sono pochi anche nei paesi dei "compagni". Il piacere della maldicenza è uno dei preferiti: ricordo quando lavoravo alla "Gazzetta del popolo" e il giornale chiudeva alle due del mattino: scendevamo nel corso Valdocco con un collega e a volte facevamo l'alba parlando del direttore e del redattore capo e di tutti gli errori madornali che avevano compiuto e delle villanie che ci avevano riservato. Faceva giorno quando, soddisfatti, ci allontanavano verso le nostre case.
Questo modo di chiudere la giornata lo si trova anche negli scritti di Gramsci quando racconta la sua esperienza a "l'Unità" di Torino. E così è stato in tutti i giornali in cui ho lavorato e pettegolato.