«Quando c'è la recessione, le classi medio-basse chiedono assistenza e protezione. Mentre le ricette individualiste basate sul "laissez-faire" perdono colpi. E' questa la lezione che viene dall'America. Ma che da noi nessuno sa interpretare». Parla il filosofo Massimo Cacciari

«Barack Obama ha vinto perché in una situazione di crisi è riuscito a indicare una strada di salvezza e in questo secondo mandato passerà a politiche più decise e arrischiate in campo sociale ed economico», ma per quanto riguarda l'Europa e l'Italia «dovremo cavarcela da soli, le ragioni di fondo della nostra decadenza sono tutte interne». E guardando al nostro Paese dalla "leadership politica scassata", Massimo Cacciari, filosofo, ex sindaco di Venezia, che credeva nel sogno di veltroniano, non trova alcuna analogia con i democratici americani. «Basta vedere queste primarie nostrane dove vi è la totale assenza di un dibattito che riguardi i contenuti, basta vedere la legge elettorale che stanno combinando per capire quanto lontani siamo da una situazione di tipo maggioritario e comparabile con quella americana. In Italia non solo saremo costretti a coalizioni debolissime, incapaci di governare, ma gli stessi partiti sono ormai delle coalizioni. Cosa formano Renzi e Bersani se non una coalizione?» . Insomma nessuna speranza per un Obama italiano. «Non ci sarà mai. E temo neanche un partito democratico coeso, che non si spacca ad ogni tirare del vento e che gioca la sua competizione sul piano maggioritario».

Barack Obama, nonostante sia arrivato alla Casa Bianca nella peggiore crisi economica dopo il crack del1929, è riuscito a farsi rieleggere. Quali sono state le mosse vincenti?

«Credo abbia interpretato bene la crisi. Non ha pagato come altri leader il costo della crisi perché i senza lavoro, la middle class in difficoltà hanno compreso che con Obama vi è una speranza di aiuto, di assistenza, di protezione. Ha presentato un programma per superare la crisi, mentre Mitt Romney ha proposto la ricetta tradizionale dei repubblicani americani. Una ricetta che non aveva alcuna prospettiva di sviluppo se non quella del lasciar fare e lasciar andare, dell'individualismo totale. In una situazione di crisi è riuscito a indicare una strada di salvezza».

Cosa si aspetta dal secondo mandato di Obama?

«La situazione americana è estremamente critica, ma rimane il fatto che sono una grande potenza. Si possono permettere di stampare un po' di moneta, a differenza dell'Europa, ma rimane un debito straordinario e una dipendenza dall'estero, dalla Cina in particolare, inaudita. Tutti i problemi rimangono assolutamente intatti. Al momento non si vede una via facile per uscirne. Bisogna vedere come intende affrontare il problema del debito e visti i programmi sociali non potrà fare altro che aumentare tasse. Con il secondo mandato può passare a politiche più attive, a decisioni che possono essere in contrasto con alcune politiche tradizionali repubblicane».

Nel 2008 Obama usava come leva del cambiamento le parole 'hope', 'change', 'yes, we can'. Ora ha vinto con una ricetta più realistica. Vuol dire che la politica anche in un Paese in cui il leader ha ancora un aspetto carismatico è sempre più 'amministrativa'?
«Gli Stati Uniti sono un Paese leader a livello mondiale. Quello americano è un popolo, con un ethos comune. Tutti, democratici e repubblicani, sono interpreti di una religione americana. Perché un Paese sia un impero occorre che tutti gli imperatori che si succedano abbiano la medesima religione. Questa è la differenza tra una comunità di conviventi e un popolo. Queste espressioni di speranza, di fiducia, di credere nel futuro del loro Paese non sono espressioni retoriche, anche se da noi farebbero sorridere perché non vi sono più popoli. Sono elementi che uniscono e formano un ethos. Penso che in questo secondo mandato Obama, anche facendo leva sull'essere popolo dei suoi concittadini, possa passare a una politica più decisa e arrischiata in campo sociale ed economico e penso che ce la possa fare. La situazione è talmente arrischiata da rendere necessari interventi politici più decisi».

Nei suoi primi quattro anni ha parlato pochissimo di Europa. Ora cambierà qualcosa? E che impatto avrà sui progressisti europei?

«Bisogna ragionare sulle onde lunghe. Gli Usa hanno sempre guardato con grande sospetto e diffidenza all'euro . L'hanno sempre avvertito come qualcosa di competitivo a loro. Sono stati determinanti nello stabilire un cambio dell'euro, che è stato una follia, una follia alla quale abbiamo troppo volentieri aderito e che ha massacrato il nostro potere d'acquisto. Pensare che gli Stati Uniti possano diventare dei grandi alleati dell'euro e della costruzione di un' Europa politicamente unita, senza la quale non si andrà da nessuna parte, non è credibile. Le linee di politica estera possono cambiare, soprattutto per quanto riguarda gli scenari di guerra, ma per il resto le linee politiche dei grandi paesi sono stabili. Certo Obama, che ha bisogno di creare occupazione, tenterà di favorire una politica di maggiore espansione e ha più interesse a sostenere lo sviluppo e la ripresa dell'Europa rispetto a Romney. Non a caso la Francia, l'Italia hanno tifato per la sua rielezione. Ma non guarda certo a un rafforzamento dell'Europa, quindi ci può favorire relativamente. E non credo sarà alleatissimo dei progressisti europei, ammesso che ci siano. Dovremo risolvere i problemi da soli».

Guardando al nostro Paese, il governo di Mario Monti è sempre stato un alleato di Obama. Questa vittoria può rafforzare l'idea del governo dei tecnici come avamposto dell'America in Italia?
«Ma qual è il governo europeo che non fosse per Obama? Forse solo la Gerrmania. Ma l'Europa deve cavarsela, muoversi verso un'unità politica effettiva per diventare Stati Uniti d'Europa. Su questa prospettiva non avremmo mai come alleati gli Usa. Mai. La competizione con gli USA sarà sempre inevitabile. Il nostro Paese ha problemi suoi propri. Il nostro debito, la nostra politica industriale ce la siamo costruita noi e l'abbiamo aggravata drammaticamente negli ultimi tempi. Le ragioni di fondo della nostra decadenza sono tutte interne. A partire dalla miseria di leadership politica, che è diventata drammatica. Una leadership politica scassata che non si è mai vista nella storia di un grande Paese. La mancanza di direzione politica pesa sull'economia, sull'industria, sulla scuola, sulla formazione che giustamente Obama ha detto nel suo discorso è il valore aggiunto degli Stati Uniti. L'Università, non l'esercito. Guardi da noi la cultura, la promozione di capitale umano in che situazione versa. Siamo noi i responsabili della situazione in cui ci troviamo. Dobbiamo risolverla e, dopo averla risolta, dobbiamo sapere che senza un'unità politica europea la decrepitezza dell'Europa è destinata a continuare. Prima di fare gol dobbiamo fare imparare almeno a fare un passaggio, un colpo di testa».

Il Pd di Veltroni si ispirava ai democratici americani. Obama ne era un punto di riferimento. Ora invece Il Pd di Bersani guarda più a modelli europei...
«Il Pd è un incompiuto. Veltroni pensava al modello dei democratici americani, a un partito orientato al maggioritario. Certo la situazione italiana è incomparabile con quella americana, perché non c'è quell'ethos comune, la religio americana che cementa e crea comunità, ma Veltroni voleva andare in quella direzione. Questa prospettiva, che condividevo, è stata abbandonata dopo due mesi. Con alleanze spurie, andando a casa dopo due anni. Adesso il Pd non c'entra nulla con il partito democratico americano. Basta vedere queste primarie dove vi è la totale assenza di un dibattito che riguardi i contenuti, basta vedere la legge elettorale che stanno combinando per capire quanto lontani siamo da una situazione di tipo maggioritario e comparabile con quella americana. Soltanto dal punto di vista pubblicitario, del comizio ha a che fare con il partito americano. Il Pd è una coalizione. In Italia non solo saremo costretti a coalizioni debolissime, incapaci di governare, ma gli stessi partiti sono ormai delle coalizioni. Cosa formano Renzi e Bersani se non una coalizione? Così come gli ex missini, gli ex democristiani e gli ex socialisti nel Pdl. Laddove il partito è una coalizione, una coabitazione a termine, hai bisogno del demagogo. Ma del demagogo scatenato. La situazione italiana è disperata e l'unica speranza che ci possa garantire di proseguire su una strada del risanamento è che si continui l'esperienza di Monti. Non è che sia felice di ciò che Monti ha fatto, ha commesso molti errori in materia di riforme occupazionali, le improvvisazioni degli esodati, le liberalizzazioni lasciate per strada, ma è l'unica presenza che potrebbe sparigliare e indurre riorganizzazioni e ripensamenti all'interno dei partiti».

Nichi Vendola era l'Obama di Terlizzi, Matteo Renzi quello di Firenze. Ma un Obama italiano si troverà mai?
«Non si potrà mai trovare in Italia un Obama vero. Obama, come altri leader, sono prodotto della storia americana, di un grande Paese che oggi, malgrado la cura dei Bush e di guerre perdute, è ancora Paese leader a livello globale e lo è perché è un grande popolo, con la storia tragica dei grandi popoli. Non ci sarà mai un Obama italiano E temo neanche un partito democratico coeso, che non si spacca ad ogni tirare del vento e che gioca la sua competizione sul piano maggioritario».