Violentati nell'orfanotrofio. Fotografati e filmati. Il racconto choc di tre bambini bulgari adottati in Italia apre una finestra su un orrore nascosto che può contare su molti complici. E i genitori accusano: le nostre denunce sono state ignorate

Le luci nelle finestre dell'orfanotrofio stasera si spengono più tardi del solito. Sono le otto e venti. Qui fuori la mezza luna rischiara l'aria limpida a quindici gradi sotto zero e le sagome delle volpi affamate che si avvicinano in cerca di qualcosa da mordere. È il momento peggiore. L'ora in cui risuonano i latrati dei cani randagi. E quella in cui D. entra nelle camere dei bambini più piccoli. Succede quasi ogni sera in questo istituto sperduto nelle campagne innevate della Bulgaria.

E se non è D., c'è sempre qualcuno della sua età che vuole fare sesso a quest'ora. Hanno soltanto dodici, tredici anni. Non oltre. Gli altri, le loro vittime, sono cuccioli. Tre anni. Cinque. Sette. Al massimo dieci. Non è nemmeno colpa di D. Lui ripete semplicemente ciò che gli ospiti più grandi gli avevano imposto. E non solo gli ospiti. Alle violenze spesso si unirebbero alcuni dipendenti dell'istituto. Almeno sette uomini e quattro donne. Fanno prostituire i bambini in una discoteca. Scattano fotografie. A volte filmano le aggressioni. Forse rivendono quelle immagini.

Qui, ai confini dell'Unione Europea, tra i latrati e le volpi che ti girano intorno, è un segreto custodito da anni. E sarebbe durato ancora, se tre bambini appena adottati in Italia non avessero avuto il coraggio di rompere il silenzio. Adesso che sono liberi, vogliono salvare gli altri bimbi, quasi sessanta, che tuttora vivono nell'orfanotrofio. E soprattutto curare loro stessi da un'infanzia fin troppo crudele.

È un resoconto agghiacciante. Sette pagine inviate qualche settimana fa al presidente della Commissione per le adozioni internazionali, il ministro Andrea Riccardi. Nell'esposto i genitori adottivi lamentano la mancata denuncia, una volta conosciuti i fatti, da parte dell'associazione che ha mediato l'adozione, l'Aibi di Milano. Uno dei maggiori enti legalmente riconosciuti: 249 bambini portati in Italia nel 2011, proventi dichiarati per 8 milioni 761 mila euro e un patrimonio di quasi 4 milioni. Il presidente dell'Aibi, Marco Griffini, è stato informato delle violenze con telefonate e email fin dal 12 ottobre.

«Abbiamo subito segnalato la vicenda alla Cai, la Commissione per le adozioni», sostiene Griffini. Quando? «Non ricordo la data», risponde: «Ma è la Cai che deve avvertire l'autorità centrale bulgara. E poi non abbiamo solo questo caso. Gli abusi sui bambini sono molto frequenti». Da quanto risulta a "l'Espresso", però, l'Aibi ha informato la commissione governativa soltanto pochi giorni fa. Molto dopo la prima segnalazione dei genitori adottivi. Un silenzio che ha ritardato di oltre due mesi le indagini su una probabile organizzazione di pedofili.

Sono una quindicina i bimbi cresciuti nello stesso istituto bulgaro e ora adottati in Italia. Ma le loro nuove famiglie non sanno nulla. Un vuoto preoccupante nei controlli che dovrebbero invece accompagnare i percorsi dell'adozione internazionale. E garantire assistenza adeguata ai bambini: perché esperienze così drammatiche, se non vengono trattate, potrebbero condizionare la crescita.

Se questo succede in un Paese come la Bulgaria che fa parte dell'Ue e ha ratificato la convenzione dell'Aia sulla protezione dei minori, si può facilmente immaginare cosa accada altrove. Solo tre figli adottivi, arrivati nel 2012, hanno svelato il segreto ai genitori. Due maschi, di 10 e poco più di 11 anni. E una bimba, che ha poco meno di 9 anni. Un'équipe di psicoterapeuti li ha ascoltati secondo i protocolli adottati dai centri di terapia familiare. Le sedute sono state filmate e i piccoli hanno potuto ricostruire le violenze con l'aiuto di disegni, colori e bambole anatomiche. «I racconti dei minori sembrano del tutto attendibili e liberi da induzioni nella manifestazione dei propri pensieri», conclude il rapporto psicologico allegato all'esposto: «C'è motivo di ritenere che le precoci e ripetute esperienze, fatte quando i bambini erano nell'istituto in Bulgaria, siano divenute in qualche modo comportamenti vissuti oggi come normali o comunque consentiti».

Poco prima di mezzanotte, davanti all'orfanotrofio e in tutto il paese, per risparmiare energia spengono i lampioni lungo le vie. Con le nuvole davanti alla luna, adesso il buio è totale.

L'unico modo per uscire da questo istituto, una volta che ci sei dentro, sono le vacanze premio. Le chiamano proprio così. Un viaggio di meno di due ore fino a un albergo in mezzo ai boschi. La bambina che ora vive in Italia e i suoi compagni, però, imparano presto che quella non è per niente una vacanza. «A me no, solo poche botte», dice la bimba durante una seduta di psicoterapia. E racconta un'esperienza particolarmente traumatica. «Fa riferimento a una discoteca», è scritto nel rapporto, «dove lei e altre bambine presenti nell'istituto venivano condotte. Inizialmente si ballava e ci si divertiva poi, di solito dopo la torta, le bambine venivano avviate in stanze nelle quali alcuni uomini "giocavano" con loro».

La piccola rivela anche di aver visto mettere le mani al collo e alla bocca di una bambina per impedirle di gridare. A quel punto l'hanno violentata davanti alla sorella. Sono i particolari troppo precisi per la loro età, oltre al metodo di indagine seguito, a convincere gli psicoterapeuti che i tre bambini abbiano davvero vissuto tutto questo.

Parlano anche di adulti esterni all'organizzazione dell'orfanotrofio che frequentano la discoteca. Di uomini nudi con la faccia coperta da passamontagna. Della telecamera professionale montata sul cavalletto. Del televisore, forse un monitor, su cui i grandi rivedono le loro perversioni. Di pistole impugnate per spaventarli. E di almeno cento bambini, violentati come loro negli ultimi sei anni.

Quei tre piccoli eroi hanno avuto davvero coraggio. Perché prima di lasciarli partire per l'Italia, li hanno minacciati. Qualcuno ha detto loro che li avrebbero riportati qui: «Se parlate, i vostri genitori italiani vi rifiuteranno e tornerete in Bulgaria». Per loro la Bulgaria è l'orfanotrofio. Non hanno visto altro. Abbandonati dalle loro famiglie troppo povere per crescerli, per sei anni hanno vissuto nell'istituto. Tempo fa, più o meno quando i coetanei italiani sono in terza elementare, e altre volte ancora, il più grande dei tre ha provato a chiedere aiuto alla direttrice. «La stessa», sintetizzano nell'esposto le famiglie adottive, «a seguito delle richieste di aiuto dei bambini, vittime dei soprusi, si sarebbe limitata a redarguire i minori autori delle violenze. Con l'effetto di inasprire le loro condotte. E alimentare sentimenti di vendetta, che si sono tradotti in altre violenze».

«Io racconto alla direttrice», spiega il bimbo più grande, «lei dice che la prossima volta che D. fa così, chiama la polizia». Ma non appena si spengono le luci, D. continua a entrare nelle camere dei più indifesi. E nessun adulto chiama la polizia. «Proprio come fosse un rito», annotano gli psicoterapeuti nel loro rapporto, «i bambini in cerchio dovevano assistere ad atti di violenza fisica e sessuale che D. usava nei confronti dei più piccoli».

I resoconti dei tre bambini, sentiti separatamente, coincidono: «Anche con la sorella, D. faceva questo». Raccontano di un altro bambino picchiato da D. e da altri come lui, mentre cercava disperatamente di proteggere la sua sorellina. Lui sapeva cosa stava per accaderle, perché era già stato violentato. Lo hanno preso a pugni in faccia. Poi hanno aggredito la sorellina. Secondo il racconto dei tre, non hanno avuto pietà nemmeno per una bimba epilettica. Per i suoi 9 anni. Per le crisi durante le quali sarebbe stata costretta ad avere rapporti sessuali.

Anche la bambina adottata in Italia ha subito violenze dagli stessi compagni di istituto: «Io vedevo M. e B. che facevano sex e io (lo) facevo con S.». La piccola «sembra avere vissuto il tutto come un gioco», scrivono gli psicoterapeuti, «non connotando negativamente l'accaduto». Un gioco per lei normale. Anche perché il mondo degli adulti intorno a questo orfanotrofio è un abisso senza fondo. Ed è il resto della storia che i tre bambini raccontano.

Ci sono ovviamente esempi positivi. Educatori affettuosi. Volontari del circondario che si danno da fare e organizzano feste, doposcuola, spettacoli. Come quello preparato da scolari e pensionati del paese, poco prima di Natale. I ricordi però si incagliano nell'omertà dei sorveglianti di turno, quando la notte si chiudono a dormire nelle loro stanze senza mai intervenire. E nelle ferite lasciate dagli uomini e dalle donne che i tre bambini indicano come gli addetti alle manutenzioni, le cuoche, la «parrucchiera» e il giro di amici pedofili. Gli stessi che, durante le vacanze, li accompagnano all'albergo con la discoteca. Sarebbero loro a trascinarli il pomeriggio nelle case in cambio di una tavoletta di cioccolato, una merenda, i cartoni animati alla tv. A questo punto è più facile convincerli o costringerli.

Raccontano di abusi su un bimbo di tre anni. E di quando bimbe e bimbi vengono ammanettati dai grandi, filmati e costretti a sopportare tutto quanto la depravazione possa immaginare: esattamente ciò che D. e i suoi sgherri la sera ripetono sui più piccoli. Oppure descrivono le volte in cui il più violento degli uomini li porta in bagno e li obbliga a subire pratiche raccapriccianti, «per poi punire i bambini con durissime percosse». Fa schifo soltanto immaginare tutto questo. Ma vale la pena leggerlo. Per considerare allo stesso modo il silenzio di quanti in Bulgaria avrebbero voltato le spalle al coraggio dei tre piccoli. E in Italia alla richiesta di aiuto dei loro genitori adottivi.

Altri orfanotrofi bulgari hanno già conosciuto il crimine della pedofilia. E non sono soltanto storie nazionali. Depravati inglesi, tedeschi e forse italiani vengono fin qui in cerca di piccole vittime. Nel 2006 a Veliko Tarnovo, l'antica capitale nel Nord, la polizia arresta un procacciatore di giovani prostitute. Reclutava ragazzine tra gli 11 e i 14 anni dall'orfanotrofio della città. Il loro compenso: 20 lev, 10 euro. Sono gli educatori dell'istituto a denunciare il pedofilo. Le condanne per questo reato non devono fare molta paura, però. L'uomo patteggia una pena a un anno di carcere e 153 euro di multa. La scorsa primavera, sempre a Veliko Tarnovo, finisce in cella un inglese di 63 anni. È accusato di avere abusato di due fratelli di dieci e undici anni. Nel marzo 2008 a Tran vicino al confine con la Serbia, un pedofilo bulgaro di 67 anni prima di suicidarsi uccide a fucilate la testimone che anni prima lo ha fatto condannare. È una ragazzina di 15 anni, Lilyana Todorova, ospite del locale orfanotrofio. Restano feriti altri due compagni di istituto. Hanno 12 e 15 anni.

Non dovrebbe essere dunque una sorpresa. Soprattutto per la direzione dell'orfanotrofio. «I nostri figli», è scritto invece nell'esposto dei genitori adottivi, «raccontano come la direttrice abbia intimato loro, prima della partenza per l'Italia, di non reiterare gli atti sessuali né di fare parola di quanto visto o direttamente subito o attuato all'interno dell'istituto. Poiché in caso contrario, la famiglia adottiva li avrebbe rifiutati e riportati immediatamente in Bulgaria».

Nel buio gelido sale un grido. Dalle finestre spente dell'orfanotrofio raggiunge la strada. È più forte del latrato dei cani. Una voce infantile. Forse è soltanto un brutto sogno. La bimba, la più piccola dei tre che hanno rotto il silenzio, quando viveva qui qualche volta è riuscita a respingere lo schifo di quelle mani grandi che la stavano catturando. Ma erano grida prolungate e insopportabili le sue. Urlava più che poteva. «Gridavo forte e davo botte a lui», rivela in una delle sedute che stanno tentando di curare le cicatrici nella sua psiche. Perché anche se adesso è al sicuro, se ha una famiglia splendida ed è brava a scuola, gli incubi del passato e quel grido assordante ancora ritornano. Del racconto dei bambini, i luoghi, le persone, i nomi, la discoteca, coincide tutto. Con contatti che, attraverso Internet, arrivano anche in Italia.

Basta qualche giorno in Bulgaria per verificarlo. Sofia è vicina. La notte ancora lunga. Prima di ritornare, resta una sola cosa da fare. Avvertire la polizia bulgara. La mattina, dall'ufficio specializzato ammettono di non sapere nulla. Sono passati due mesi e mezzo dalla prima segnalazione dei genitori adottivi. Due mesi e mezzo in cui, chissà quante altre volte, sessanta bambini nella solitudine delle loro camere hanno rinunciato a gridare.

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