La maggior parte del pesce che finisce in scatola viene dall'Oceano Indiano. Dove un'industria avanzatissima lo pesca e lo lavora. Senza aver risolto il dilemma di fondo: i mercati ne chiedono sempre di più, ma nel mare ce n'è sempre meno

La nave ha attraccato alla banchina del porto di Victoria, alle Isole Seychelles, non più di un'ora fa, ma i primi animali stanno già scivolando nei piccoli carrelli a terra. Sono tonni, grossi e lucenti. Ciascuno pesa tra i 40 e gli 80 chili, a seconda che si tratti di un piccolo skipjack (il tonnetto striato) o di un più corposo yellowfin (il pinna gialla). Nell'arco di 24 ore saranno puliti, lavorati, inscatolati in uno dei più grandi stabilimenti del mondo, l'Indian Ocean Tuna Ltd., e spediti ai quattro angoli del pianeta, per finire sugli scaffali dei supermercati. Anche di quelli italiani. Perché è proprio da qui, dall'Oceano Indiano, che arriva gran parte del tonno che portiamo sulle nostre tavole. D'altra parte il prezioso bluefin (il tonno rosso) è stato per anni sull'orlo dell'estinzione, e la sua cattura nelle acque del Mediterraneo è oggi consentita con grandi restrizioni, e solo per il mercato del fresco.

Così, indipendentemente dal marchio stampato sull'etichetta, per capire cosa c'è dentro una scatoletta di tonno bisogna guardare lontano, verso le coste dell'Africa orientale, da dove proviene circa il 50 per cento delle catture totali della regione. E dove ogni due anni, nella Tuna Conference, si incontrano i rappresentanti dell'industria conserviera, gli armatori, i pescatori, i biologi marini, le autorità locali e i gruppi di pressione ambientalista, per fare il punto sullo sfruttamento degli stock, sulle buone pratiche di pesca, e per trovare soluzioni ai tanti problemi del settore. Due su tutti: l'impoverimento progressivo delle risorse ittiche, e l'uso dei cosiddetti Fad (Fish Aggregating Devices, sistemi di aggregazione per pesci), oggetti galleggianti che generando un cono d'ombra nell'acqua attirano i banchi di tonni e consentono catture più facili e più consistenti. Intrappolando nelle loro maglie sommerse, però, anche tartarughe marine, squali o altre specie protette o non commestibili.

Il peschereccio batte bandiera spagnola. È uno dei 33 vascelli, per lo più francesi oltre che iberici, che ha la licenza di operare nell'area. I 20 uomini dell'equipaggio sono stati fuori per un mese e mezzo nelle acque pescose al largo del Madagascar, e ora con grossi uncini issano sul ponte i pesci stivati nei congelatori di bordo. Dimenticate mattanze, rais e acque tinte dal rosso del sangue, oggi gli animali passano direttamente dalla rete a meno 20 gradi, per poi essere lentamente riportati a temperatura ambiente una volta varcate le porte dell'impianto di produzione. Il capitano ha contrattato già in alto mare il prezzo del suo carico con gli addetti dello stabilimento, strappando 2.500 euro per tonnellata di pesce. «Dal 2010 il prezzo del tonnetto striato è cresciuto dell'82 per cento, quello del pinna gialla del 45 per cento», spiega Anthony Lazazzara, direttore dello stabilimento di proprietà del gruppo MWBrands, leader europeo delle conserve ittiche. E i riflessi, seppure contenuti, si sono visti anche sul prezzo delle scatolette, che è aumentato del 3-5 per cento, generando nel 2012 una flessione nelle vendite di poco inferiore all'1 per cento. Ma a pesare sui costi ci sono anche altri fattori, come spiega Lazazzara: la domanda è in aumento nei Paesi emergenti e in quelli del Medio Oriente, e il riscaldamento globale sta modificando le rotte dei banchi, che si spostano verso acque più ricche di cibo. Infine, sulla pesca incombe la pirateria: le navi corsare che scendono dal corno d'Africa assaltando i pescherecci, prendendo in ostaggio i vascelli e a volte anche gli equipaggi, e chiedendo cospicui riscatti agli armatori.

Dentro il grande impianto industriale, che occupa più di 2 mila persone (18 dollari al giorno la paga media), l'odore è pungente. I tonni sono ordinati sulle immense rastrelliere in uno stanzone a meno 14 gradi. Ciascuno scaffale riporta, in etichetta, i dati che servono all'identificazione dell'animale: la nave di provenienza, la specie, la data di pesca e l'area di cattura. Dal 2011, queste informazioni sono presenti anche su tutte le scatolette che escono da questo stabilimento: quelle con il marchio francese Petit Navire, con l'inglese John West e Mareblu. «E dal 2012», aggiunge Adolfo Valsecchi, alla guida del gruppo italiano e di MWBrands: «Questi dati sono scritti per esteso anche sulla confezione esterna».

L'idea è che la tracciabilità consenta al consumatore di preferire quei prodotti ottenuti nel rispetto delle best practice ambientali. Perché il mercato del tonno risente più di altri delle pressioni da parte di organizzazioni ambientaliste come Greenpeace. Non a caso la classifica dei "Rompiscatole" stilata dall'organizzazione, relativa alla sostenibilità dei 14 marchi di tonno che coprono l'80 per cento del mercato italiano, considera anche parametri come l'etichettatura e le informazioni su area di pesca, porto di sbarco e così via. Così, in cima alla lista dei "buoni", si trovano proprio quei marchi che hanno fatto della sostenibilità sociale e ambientale uno dei punti di forza. In alcuni casi anche grazie alla collaborazione con le Ong verdi. In Italia, per esempio, Legambiente ha scelto di certificare con un bollino il tonno pescato a canna, cioè con il metodo che consente di salvaguardare al massimo tutte le altre forme di vita marina, spiega Federica Barbera, responsabile del settore pesca dell'associazione. La scatoletta costa un po' di più (circa il 20 per cento), ma il consumatore si porta a casa anche la coscienza pulita. E poi c'è la certificazione promossa nel 1990 dall'Earth Island Institute di Berkeley, la Dolphine Safe, che assicura al consumatore che il tonno nel suo piatto è stato pescato senza arrecare danni ai mammiferi marini. Il marchio oggi è presente sui prodotti di 85 aziende in dodici Paesi dell'area.

In realtà, la vera spada di Damocle che incombe sull'intero comparto è quello dell'overfishing, ovvero l'eccessivo sfruttamento della risorsa ittica causato da un'eccessiva e non razionale attività di pesca. «Pensavamo che il mare fosse così pieno di pesci che ne avremmo mangiato fino alla morte, ma non è così. Il pesce non è infinito, e se non facciamo qualcosa i nostri figli ci rimprovereranno di averli lasciati a secco», commenta Peter Sinon, ministro della Pesca della Repubblica delle Seychelles, la cui economia è legata a doppio filo con l'industria conserviera.

Gli ultimi dati della International Seafood Sustainability Foundation (Issf) mostrano che, a livello globale, il 65 per cento degli stock delle diverse specie di tonno (il pinna gialla, il tonnetto striato e il bigeye, cioè il tonno obeso) è in buona salute, il 26 per cento è colpito invece dalla sovrappesca, e il restante 9 per cento lo sarà tra poco in assenza di provvedimenti. È vero che nell'Oceano Indiano le cose vanno meglio: secondo l'Indian Ocean Tuna Commission (Iotc), l'ente che regola la pesca del tonno nella regione e di cui fanno parte 31 Paesi costieri, compresi i recenti ingressi di Maldive, Mozambico e Yemen, tutti i principali stock sono in buona salute, fatta eccezione per l'alalunga, il cosiddetto tonno bianco, di nuovo a rischio per la crescente richiesta del mercato giapponese. Ma al di là delle buone notizie, è chiaro a tutti che i ritmi di pesca non sono sostenibili, soprattutto se si considera anche la parte sommersa, illegale, di questa attività. L'Unione europea ha stilato la black list delle navi che praticano la pesca clandestina, e impedisce alle aziende di rifornirsi dai pescherecci privi di autorizzazione. Ma alcuni Paesi costieri preferiscono chiudere un occhio, e non collaborano con l'organizzazione regionale di controllo dell'attività di pesca.

Così i biologi marini salgono sui pescherecci e cercano di trovare soluzioni al problema con gli strumenti della scienza. «L'Unione europea ha stanziato 14 milioni di euro per un progetto di ricerca relativo al tagging, cioè l'inserimento di un chip identificativo su tonni di varie specie», spiega Laurent Dagorn, oggi all'Institut de Recherches pour le Développement di Marsiglia, che nella primavera del 2012 ha passato due mesi a bordo del Torre Giulia, peschereccio prima italiano e ora francese, per una campagna di monitoraggio. Obiettivo della ricerca, capire come si distribuiscano le diverse popolazioni di tonni, a quanto ammontino gli stock e quali siano i modelli di crescita delle varie specie.

Un altro progetto di ricerca coordinato dalla Issf riguarda invece il bycatch, cioè la cattura accessoria, non intenzionale, di specie non commestibili. Come le razze o gli squali. Di questi ultimi ne muoiono ogni anno almeno 60 mila, intrappolati nelle reti destinate ai tonni. «Se i pescatori non rilasciano immediatamente gli animali dopo la cattura, registriamo il 100 per cento dei decessi», spiega Dagorn. Di quelli ributtati in mare in tempo utile, sopravvive solo la metà. Con la formazione dei pescatori e l'adozione di buone pratiche, si riesce a salvarne un altro 15 per cento. Ma non basta ancora. Ecco allora la progettazione di reti con aperture speciali per consentire agli squali - che nuotano più in superficie - di scappare in tempo, o di segnali sonori in grado di allontanarli dai banchi di tonni. O, infine, la progettazione di Fad con materiale biodegradabile, evitando la trama a maglia, in modo da ridurre il rischio di avviluppamento.

Intanto i lavoratori dello stabilimento di Victoria continuano a pulire, cuocere e inscatolare 350 tonnellate di tonno ogni giorno. Dopo aver tagliato testa e coda (da cui si estrae l'olio di pesce, mentre la pelle fornisce il collagene all'industria cosmetica e farmaceutica), inseriscono le carcasse nei cuocitori a vapore, giganteschi forni a 100 gradi centigradi. La lavorazione successiva, dopo il raffreddamento, è affidata alle donne: centinaia di lavoratrici davanti a un nastro trasportatore, che pazientemente puliscono i tranci da spine e grumi di sangue, e sminuzzano le parti meno pregiate per riempire le pastiglie da inscatolare. L'aggiunta di olio di oliva - non extravergine, perché il sapore risulterebbe troppo intenso - e la chiusura della lattina, anch'essa prodotta all'interno dello stabilimento per ottimizzare le linee di montaggio e ridurre i costi, completano il percorso. Sul piazzale, i grandi container attendono di essere riempiti e imbarcati. Partiranno in giornata, per arrivare sulle nostre tavole.