Prima o poi anche i cittadini italiani potranno avere il piacere di vedere un governo all'opera.
Uno dei problemi in cima alla lista di cose da fare di qualsiasi esecutivo dovrebbe essere quello della disoccupazione che, soprattutto tra le fasce giovani della popolazione, ha raggiunto livelli inauditi (37 per cento).
Naturalmente è bene sgomberare il campo dalla perniciosa illusione che un governo possa creare lavoro con le assunzioni pubbliche dei vituperati forestali siciliani e calabresi, oppure attraverso grandiose opere pubbliche che non rispondano a criteri di efficienza economica e di reale necessità.
Tuttavia, si potrebbe riformare il diritto del lavoro in modo che sia più agevole per le imprese assumere e sia più semplice per tutti interpretare la normativa, eliminando incertezze che comportano ulteriori costi, visibili e invisibili (la mancata assunzione di persone a causa dell'insicurezza del loro status giuridico). Sotto questo profilo è indubbio che la riforma Fornero promossa dal governo Monti sia stata un flop clamoroso. Le si rimprovera un aggravio dei costi per le imprese che assumono con i contratti a tempo determinato (in Italia già meno utilizzati che nel resto d'Europa); un irragionevole giro di vite ai contratti a progetto, ai voucher per l'impiego, ai tirocini e alle collaborazioni delle partite Iva; un cambiamento barocco del contratto di apprendistato che dovrebbe diventare la porta di ingresso nella vita lavorativa, nonché una sostanziale inefficacia del cambiamento dell'articolo 18. Il tutto in un guazzabuglio di difficile interpretazione giuridica.
Se una riforma si deve giudicare dal raggiungimento degli obiettivi, infatti, la pagella è decisamente insufficiente. Si voleva incrementare l'occupazione e la disoccupazione è invece salita dal 10,5 all'11,6 per cento. Certamente colpa della crisi economica, ma probabilmente anche della eccessiva rigidità delle norme che regolano l'entrata nel mondo del lavoro. Come ha fatto notare l'economista Tito Boeri, nel secondo semestre del 2012, da quando cioè ha avuto effetto la riforma, le assunzioni con contratto di lavoro determinato o indeterminato sono calate "solo" del 6,37 per cento rispetto al semestre precedente, mentre sono diminuite di uno strabiliante 26,4 per cento tutte quelle forme di lavoro parasubordinato su cui si è esercitata la stretta normativa. Il bello è che nel 2011, altro anno cattivo, il calo tra primo e secondo semestre dei contratti da dipendente era stato più o meno uguale del 6 per cento, mentre la diminuzione delle forme "precarie" solo del 3,57 per cento. Né si può dire che la famosa flessibilità in uscita dovuta alla modifica dell'articolo 18 sia stata notata da qualcuno. La congiuntura negativa ha incrementato purtroppo i licenziamenti, ma - sorpresa, sorpresa - quelli individuali (toccati dalla riforma) sono cresciuti del 20 per cento mentre quelli collettivi, rimasti tali e quali, sono schizzati di un deprimente +50 per cento!
Questa disparità è indice di un altro evidente fallimento della riforma. Si voleva fare chiarezza ed invece si è ingarbugliata la situazione. I giudici hanno una grande discrezionalità nel decidere se in caso di licenziamento per motivi economici illegittimo l'azienda debba pagare una buonuscita (con ampi margini di variabilità) o reintegrare il lavoratore. Come ha notato la stessa Cgil, la norma «contribuisce a rendere molto incerta la disposizione, soprattutto rispetto alle esigenze delle imprese di avere certezze ex ante sui costi del licenziamento». I tribunali, smarriti, hanno cominciato ad emanare linee guida sull'applicazione della legge e, abbastanza prevedibilmente, esse sono diverse a seconda del tribunale. Stessa incertezza pervade gli altri aspetti della riforma.
Bisogna quindi cambiare. Come? Riprendiamo una sana abitudine, quella dei referendum sui temi economici che i radicali tentarono con successo negli anni '90 ma che furono disattesi dalla partitocrazia (pensate che si votò per l'abolizione dei finanziamenti pubblici ai partiti e di alcuni ministeri e per la privatizzazione della Rai...ahah). Ma this time is different: l'opinione pubblica inferocita non sopporterebbe i trucchi della casta. Quindi si parta con un bel pacchetto di referendum per liberare l'economia italiana, abrogando norme restrittive e dirigiste. Primo candidato: il 90 prr cento della legge Fornero!