Senza riposo nel cervello si accumulano rifiuti. E le conseguenze ?sono gravi. Perdita della memoria. Alzheimer. Demenze senili. Ma non serve prendere i sonniferi: due milioni e mezzo di italiani usano i farmaci ma farlo a lungo li espone a malattie serie

Chi dorme forse non piglia pesci, ma certamente aiuta a mantenere il suo cervello in salute. Sempre che si tratti di sonno sano, naturale, senza l’aiuto esagerato della chimica. Lo dicono i molti studi che da tempo indagano lo stretto legame tra la qualità del riposo notturno e la protezione delle funzioni cognitive. E lo dicono anche quelle ricerche che ribaltano il punto di vista: e dimostrano che chi dorme male ha un rischio superiore di sviluppare demenze in tarda età. Ma attenzione. Gli stessi studi mettono anche in guardia chi per dormire bene ricorre troppo spesso e troppo a lungo alle scorciatoie farmacologiche, rischiando così di ottenere l’effetto opposto: anziché proteggere il cervello, spianare la strada a malattie gravi come l’Alzheimer. È quanto suggerisce una ricerca appena pubblicata sul “British Medical Journal” secondo cui un uso eccessivo o prolungato di benzodiazepine, i farmaci comunemente usati proprio per contrastare l’insonnia, può aumentare (fino al 51 per cento in più) il rischio di sviluppare il morbo, come ci spiega lo psichiatra Michele Tansella.


Il problema riguarda per altro una fetta imponente di persone: secondo i dati dell’Associazione Italiana di Medicina del Sonno, a segnalare la difficoltà di riposare sarebbe il 30-40 per cento degli adulti.
Un bel guaio se si pensa, come spiega Liborio Parrino, neurologo e presidente della Società Italiana di Medicina del Sonno (Sims), che «Dormire è un’attività non negoziabile, è il baricentro della nostra esistenza».
La ricerca
Siamo un popolo di impasticcati
13/10/2014

E gli studi mostrano che se non si raggiungono le sette ore di sonno, o comunque non ci si avvicina a questa soglia di riposo, possono comparire i primi segnali di un declino delle funzioni cognitive. Si comincia con la memoria: piccole dimenticanze, parole che abbiamo sulla punta della lingua ma che non si decidono a uscire, ricordi recenti che si perdono nei meandri della mente. Ma questo è il meno. Perché, come avvertono i ricercatori dell’Università della California a San Francisco, una cronica carenza di riposo notturno può anche aumentare il rischio di sviluppare forme più gravi di demenza, fino ad arrivare alla malattia di Alzheimer.

Una delle prove di questo rapporto pernicioso tra un sonno insufficiente per quantità e qualità e sviluppo di demenza viene oggi dallo “Sleep study”, una ricerca condotta su oltre 200 mila veterani americani di età superiore ai 55 anni. Secondo cui chi presenta disturbi del sonno (intesi non soltanto come insonnia, ma anche come apnee notturne, quelle sospensioni del respiro che costringono al risveglio e colpiscono il 4 per cento degli uomini e il 2 delle donne), ha un rischio del 30 per cento maggiore di andare incontro a demenza, rispetto a chi riposa senza difficoltà.

Il punto, insistono i neurologi, è indagare cosa accada nel cervello di chi non riposa a sufficienza, per capire se davvero dormire poco e male abbia qualcosa a che fare con l’insorgere delle demenze. A mettere a fuoco l’impatto del deficit cronico di sonno sulla struttura cerebrale ci sono riusciti i ricercatori dell’Università Duke di Singapore, valutando una popolazione di circa 60 over 55 con la risonanza magnetica associata a un’indagine neuropsicologica. Risultati: il sonno perduto provoca da un lato una progressiva espansione dei ventricoli cerebrali (le cavità che contengono al loro interno il liquido cefalorachidiano e contribuiscono tra l’altro a mantenere normale la pressione all’interno del cranio), dall’altro il declino delle capacità cognitive.

«L’aumento delle dimensioni dei ventricoli cerebrali rappresenta un marcatore del declino cognitivo e dello sviluppo di patologie neurodegenerative come la malattia di Alzheimer», spiegano sulla rivista Sleep i ricercatori di Singapore guidati da Michael Chee: «Ogni ora di riduzione della quantità di sonno comporta su scala annuale un aumento dell’espansione dei ventricoli che arriva fino allo 0,59 per cento, con un calo fino allo 0,67 per cento delle prestazioni cognitive». Il tutto a prescindere da altri fattori, come l’età, il sesso, il livello culturale o un eccessivo peso corporeo.

Dimostra lo stretto legame tra il sonno e la malattia di Alzheimer anche lo studio condotto dai neurologi del Beth Israel Deaconess Medical Center di Boston, apparso sulla rivista “Brain”. Alla base dell’indagine, il tentativo di rispondere alla domanda che popola le notti inquiete degli anziani: perché a settant’anni si dorme meno e peggio che a venti? La risposta sta in un gruppo di neuroni, che sono responsabili non solo del sonno agitato e poco riposante della terza età ma anche delle alterazioni del riposo in chi soffre di malattia di Alzheimer. Negli anziani, e nelle persone che soffrono della malattia neurodegenerativa, questa piccola popolazione di neuroni è ridotta rispetto a chi non ha problemi di sonno. «Negli anziani che non avevano la malattia di Alzheimer il numero dei neuroni in questa area appare direttamente collegato con la frammentazione del riposo», spiega Clifford B. Saper, neurologo al Beth Israel. In particolare, chi aveva più di 6000 neuroni concentrati nell’area sotto esame riusciva a dormire per la metà o più delle ore di sonno in prolungati periodi senza movimenti, mentre chi aveva meno della metà delle cellule nervose riusciva a riposare tranquillamente meno del 40 per cento delle ore passate a dormire.

Resta da capire perché. «Anche se non esistono ancora dati sufficientemente significativi per affermare con certezza il rapporto tra insonnia e malattia di Alzheimer o altre demenze, è certo che in assenza di una quantità adeguata di riposo il cervello soffre, probabilmente perché non si generano quei meccanismi di “pulizia” delle cellule cerebrali che consentono la loro ottimale funzione», spiega Lino Nobili, responsabile del Centro di medicina del sonno dell’Ospedale Niguarda di Milano: «Senza il giusto riposo nel cervello si accumulano rifiuti, che possono avere effetti potenzialmente pericolosi nel tempo». Lo prova ad esempio una ricerca apparsa su “Science” e condotta dall’equipe di Maiken Nedergaard dell’Università di Rochester: durante il riposo i tessuti cerebrali si disintossicano di molecole pericolose come la beta-amiloide, che sembra essere un fattore essenziale nello sviluppo dell’Alzheimer.

Gli stessi ricercatori americani, peraltro, avevano già chiarito l’effetto “chiave” dell’insonnia cronica sul cervello con esperimenti su ratti. All’interno del cervello esisterebbe un sistema, chiamato glinfatico, che regola il flusso del liquido cerebrospinale, quello che “bagna” il sistema nervoso. Gli scienziati hanno iniettato un colorante nel liquido cerebrospinale di questi animali, dimostrando che il suo flusso nel cervello aumenta fortemente durante il sonno. Ma non basta. Hanno anche scoperto che iniettando nei topi la proteina beta-amiloide, la sua eliminazione avviene più rapidamente quando si dorme.

I numeri, sia chiaro, sono ancora troppo limitati per poter giungere a conclusioni definitive sul rapporto tra la scarsità di sonno e l’involuzione del cervello occorrono dati più significativi. Ma certamente le segnalazioni che mettono in allarme crescono, in particolare sugli effetti dell’insufficiente riposo sulle capacità mnemoniche. Addirittura chi dorme meno di cinque ore per notte potrebbe crearsi falsi ricordi, inserendo nella propria memoria eventi che non sono mai accaduti. Lo rivela una ricerca dell’équipe guidata da Steven J. Frenda, dell’Università della California, apparsa su “Psychological Science”, che ha preso in esame 104 studenti che hanno visionato le foto della scena di un crimine, cercando di raccogliere particolari. Alcuni giovani hanno osservato le foto prima di andare a dormire regolarmente, altri dopo essere rimasti svegli tutta la notte. Questi ultimi, a distanza di tempo, avevano un quadro molto meno chiaro dei particolari delle scene e addirittura inserivano ricordi del tutto irreali. «Sappiamo da tempo che durante il sonno la memoria si consolida», continua Parrino: «Oggi, grazie alle tecniche di imaging, ci siamo accorti che il cervello non “dorme” in modo omogeneo, e che alcune aree dormono più profondamente di altre».

A presentare i focolai di sonno profondo sono infatti quelle regioni che nel corso della giornata sono state più attive, e che dunque devono recuperare nel corso della notte. Se per esempio durante le ore di veglia ripetiamo a lungo un esercizio con le dita, nel corso della notte a riposare di più saranno proprio quelle strutture cerebrali deputate al controllo del movimento degli arti. E proprio durante il sonno profondo avviene quella rimodulazione sinaptica che consente ai ricordi di consolidarsi.