Giancarlo De Cataldo: 'Ecco perché Cassazione diventa prescrizione'
Il caso della condanna annullata per la vicenda Eternit è solo l'ultimo esempio di come l'ultimo grado di giudizio spesso si trasformi in una tragicommedia all'Italiana. Che rispecchia il rapporto tra classe dirigente e toghe. L'analisi del giudice-scrittore
Perché in Italia affoghiamo nei processi, e altrove le cose vanno diversamente? Prendiamo il caso, eclatante, della Corte di Cassazione. È l’ultimo giudice. Subentra dopo due gradi di giudizio, e non deve stabilire se Tizio o Caio sono colpevoli o innocenti, ma se chi li ha giudicati ha interpretato bene la legge e se il giudizio è stato corretto.
[[ge:espresso:attualita:1.188714:article:https://espresso.repubblica.it/attualita/2014/11/20/news/caso-eternit-il-buco-nero-della-prescrizione-1.188714]]In tutti i più grandi paesi europei è un giudice “eventuale”, nel senso che pochissimi vi fanno ricorso: nel 2012, le cause criminali complessivamente registrate dalla corte suprema francese erano poco più di tremila, in Spagna duemila, in Germania meno di settecento.
n Italia, nel primo semestre di quest’anno, la sola Cassazione Penale è stata investita di oltre trentamila ricorsi, ai quali ne vanno aggiunti altrettanti pendenti. Sempre nello stesso periodo, ne sono stati decisi circa la metà. La media annua, peraltro crescente, è di 100 mila ricorsi (le statistiche si possono consultare sul sito www.cassazione.it).
Ogni udienza comporta l’esame di centocinquanta/duecento ricorsi. Ogni settimana, ciascun giudice della Cassazione incamera una media di quindici sentenze, che vanno, ovviamente, scritte, depositate e motivate. Cifre da capogiro. Se ne può tranquillamente dedurre che, contrariamente al resto d’Europa, il ricorso al massimo giudice è un must del nostro sistema.
In Italia si ricorre in Cassazione praticamente per tutto. E si ricorre in Cassazione, come del resto sovente in appello, per una ragione ben precisa: perché conviene. Merito di un istituto di antica nobiltà che risponde al nome di “prescrizione”: ossia ciò che accade quando lo Stato incrimina qualcuno, ne riconosce la responsabilità, ma poi non fa in tempo a condannarlo in via definitiva. Il tempo che scorre, scandito dalle regole di un processo complesso e farraginoso, diventa un potente alleato.
E così, c’è l’imputato che candidamente ammette di rivolgersi alla Cassazione “per finalità trasversali”: ossia per prendere tempo (appunto) e ritardare il passaggio in giudicato della sentenza, confidando magari, nel frattempo, in una provvidenziale scarcerazione. C’è quello che chiede le attenuanti generiche che ha peraltro già ottenuto, ma, si sa, tentar non nuoce, anche se non si può vincere niente. E c’è pure il tizio che scrive a mano una petizione (senza nessun aggancio tecnico) «sperando in una cordiale accoglienza alla mia richiesta». E pare quasi di vederlo, un novello Capannelle della commedia all’italiana, mentre, non sai bene se beneducato o sarcastico, porge ai giudici i suoi “distinti saluti”.
Il tempo, la prescrizione, sì, ma un profano potrebbe osservare: sta bene, tutti fanno ricorso, ma non tutti i ricorsi sono uguali. Le cause palesemente inconsistenti si possono e devono liquidare con un tratto di penna. Non è lì che si annidano i ritardi. Errore. Nel nostro Paese, ogni ricorso, per qualunque materia, segue un percorso obbligato, e tutti i casi hanno pari dignità. Dalla guida in stato di ebbrezza alla strage di mafia, passando per gli schiamazzi notturni. Per tutti valgono le stesse, identiche regole. E a tutti va dedicato lo stesso tempo. Il Codice in vigore, a differenza del precedente, non consente di stroncare il caso inesistente prima del dibattimento. Nel migliore dei casi, dunque, il nostro buon Capannelle arriverà a sentenza in sei/sette mesi, e la sua istanza sarà decisa, diciamo, fra una bancarotta milionaria e un omicidio stradale. Tutto tempo guadagnato, e nel frattempo, chissà!
Chi si appella e ricorre senza causa fa un duplice favore: a se stesso, perché potrebbe sempre strappare la prescrizione, e agli altri “cattivi”, perché ingolfando la macchina della giustizia la rende ancora più lenta e inefficiente. Poiché di questi tempi il richiamo ai valori rischia di essere lettera morta, e anche un po’ sgradita, sarà inutile sottolineare l’assurdità del sistema sul piano tecnico-culturale.
Meglio tentare con un argomento economico: in tempi di spending review, quante energie sono sottratte ai casi veramente rilevanti e dirottate su minuzie oggettivamente prive di senso? E come funziona da altre parti? Prendiamo il sistema inglese, al quale in parte si ispira il processo accusatorio introdotto in Italia dal codice del 1989. Il condannato ha diritto di fare appello. La questione viene esaminata in camera di consiglio da un singolo giudice. Se il giudice decide che l’appello può essere coltivato, rimette gli atti alla Corte, composta da tre membri. In caso contrario, nega il “permesso di appellare”. L’interessato può fare ricorso alla Corte, che riesamina il caso e può decidere di procedere, e quindi effettuare il giudizio d’appello, o apporre un timbro con la dicitura “loss of time”, perdita di tempo. E questo chiude definitivamente la questione. Fantascienza, per il nostro sistema.
Tenuto conto anche di altre condizioni: la presenza dell’imputato non è prevista, e quindi niente trasferimenti dal carcere con impiego di uomini e mezzi o videoconferenze con boss detenuti; assistenza legale limitata al minimo indispensabile, trascrizione degli atti solo a richiesta dell’interessato e a sue spese, e via dicendo.Tutto all’insegna di una snellezza scandita da termini rigidissimi e imposizioni vessatorie che tendono a sconsigliare il ricorso all’istituto: per dirne una, quando dichiara che l’appello è “una perdita di tempo”, la Corte può decidere che la carcerazione preventiva eventualmente patita non vale come pena. Come dire: ci hai fatto perdere un mucchio di tempo, ora pagane le conseguenze.
È evidente che un sistema così rigido non può che reggersi su un patto ferreo fra tutti gli attori della scena processuale. Nei manuali “diritto- fai-da-te” che circolano in Rete si raccomanda caldamente al condannato, prima di intraprendere la costosa e rischiosa via dell’appello, di rimettersi al consiglio del proprio legale: se mr. Barrister dice che non è cosa, inutile insistere. Va da sé, peraltro, che le valutazioni di mr. Barrister non possono che discendere da criteri di convenienza: se vivesse a lavorasse a Roma, anche il più scrupoloso legale britannico troverebbe comunque convenienza ad appellarsi. Sperando, ovviamente, nella prescrizione. Ma il problema non è solo di numeri.
Una così forte diversità non si giustifica solo con fattori tecnici. Ai tempi di Lombroso si sosteneva, dati alla mano, che i popoli latini (italiani inclusi) sono più delinquenti di quelli nordici. E si cercavano le cause economiche, sociali, antropologiche della propensione nazionale al crimine. Oggi, in epoca di criminalità globalizzata, argomenti del genere - per quanto ancora dotati di una certa carica di seduzione - non sono più accettabili. È ben vero che siamo il Paese delle mafie, ma quando poi i santuari del potere bancario, da Wall Street al Big Ben, patteggiano risarcimenti milionari per spregiudicate operazioni di riciclaggio, qualche cattivo pensiero si è autorizzati a formularlo. E l’attenzione va spostata su altri territori.
Il fatto è che le differenze sul piano concreto fra il nostro processo e altri sistemi europei sono rivelatrici di una più profonda, e radicalmente insanabile, alterità culturale. Il “fair trial”, oltre che un patto fra addetti ai lavori, è espressione di una forte condivisione sociale, tanto generalizzata ed estesa da essere fatta propria da tutti i cittadini. Un sistema come quello inglese, che prevede limitazioni così drastiche dell’accesso, non potrebbe altrimenti funzionare: la sua forza sta proprio in questa condivisione. Da noi si respira, per complesse ragioni storiche, politiche, culturali, un’aria completamente diversa.
Fra le classi dirigenti di questo Paese e i suoi giudici non c’è mai stato feeling. Se non per un breve periodo sotto il Fascismo. Quando le toghe dovevano giurare obbedienza al regime. Per il resto, la contrapposizione è stata la regola. A partire dall’Unità d’Italia, quando il più arretrato codice piemontese prese il posto dei più avanzati codici toscano e napoletano. Passando per le leggi Pica, che sottrassero la repressione del brigantaggio a giudici considerati troppo “liberal” dai generali torinesi (pretendevano di opporsi alle esecuzioni di massa, discriminavano fra chi era brigante e chi non lo era, e altre cosette del genere).
Lo stesso Fascismo dovette istituire un Tribunale Speciale per i delitti politici, affidandolo a uomini di provata fedeltà, per evitare che le corti ordinarie usassero eccessiva clemenza con i sovversivi. Una contrapposizione bi-partisan: la magistratura post-fascista rimase a lungo fascista, e stentò ad adattarsi alla democrazia. Il potere, insomma, ha sempre agognato a un modello di giudice che non disturbasse il manovratore: esattamente l’opposto del disegno costituzionale. “Mani Pulite”, in altri termini, non fu che uno dei tanti passaggi di questa contrapposizione, verrebbe da dire fisiologica, fra controllori chiamati dalle leggi a esercitare il controllo di legalità e controllati insofferenti di questo controllo. Né più né meno di quanto accade, in questi giorni, con le vicende Mose ed Expo. E, nonostante la prescrizione e tutto il resto, i magistrati italiani sono considerati i più produttivi del continente dagli ultimi rapporti del Cepej (Commissione europea per l’efficienza della giustizia, consultabili sul sito www.coe.int ). Sorprendente, vero? Non eravamo il paese dei giudici lumaca, dei fannulloni da raddrizzare coi tornelli e via dicendo?
Mentre di tutto ciò si dibatte in ristretti convegni (vuoi mettere l’appeal mediatico delle ferie?), in Cassazione, a un certo punto, si è spenta la luce. E non è una metafora, no. La luce si è proprio spenta in senso tecnico: un’interruzione di corrente, e il buio cala sul Palazzaccio. È accaduto il 15 ottobre di quest’anno, sul far della sera. Ed è così che gli ermellini, cullati dal sottofondo del generatore d’emergenza, hanno faticosamente smaltito i tanti ricorsi del giorno squarciando le tenebre con la torcia dell’iPhone. Certo, un blackout non si nega a nessuno, sono incerti della vita: ma resta un’altra immagine da commedia all’italiana. Dopo Capannelle col cappello in mano, i giudici del più alto consesso che compulsano voluminosi fascicoli col telefonino in canna. L’ennesima, beffarda icona di quella che chiamiamo “crisi della giustizia”.