Toghe, la grande spartizione. Con la Riforma vanno a casa oltre 400 magistrati
Il governo Renzi si prepara a rottamare le toghe. Un semplice strumento burocratico con cui si realizza quello che il centro-destra guidato da Berlusconi ha sognato per anni ma non è mai riuscito a fare. L’uscita di scena in blocco di una o due generazioni di magistrati. Quelle che vengono dagli anni Settanta e Ottanta
Tutti a casa. Quattrocento subito, da qui al 31 dicembre 2015, gli altri 900 nel triennio successivo. Un cambio epocale. La più grande rottamazione degli ultimi decenni, roba da far impallidire quello che è successo in politica con l’ascesa di Matteo Renzi. La posta in gioco sono gli oltre 1300 incarichi «direttivi o semi-direttivi», le posizioni di vertice della magistratura italiana, dalla Corte suprema di Cassazione alla più piccola delle procure, gli equilibri che stabiliranno chi guiderà la giustizia nei prossimi venti anni. È la vera guerra che si sta combattendo in modo sotterraneo, dietro i tweet del premier che ironizza sulle toghe che non vogliono rinunciare a quindici giorni di ferie e le minacce di sciopero dell’Anm, l’Associazione nazionale magistrati.
Il pacchetto di riforme firmate dal ministro Andrea Orlando prende faticosamente forma, dopo la giustizia civile votata dal Parlamento tocca alla responsabilità civile su cui il governo potrebbe ricorrere all’arma del decreto. Ma il cambiamento che segna un passaggio storico è contenuto in un decreto che non riguarda direttamente la giustizia, quello che porta il nome del ministro Marianna Madia sulla pubblica amministrazione, approvato in estate.
Un semplice strumento burocratico con cui il governo Renzi realizza quello che il centro-destra guidato da Silvio Berlusconi ha sognato per anni ma che non è mai riusciti a portare a termine. L’uscita di scena in blocco di una o due generazioni di magistrati. Quelle che vengono dagli anni Settanta e Ottanta, la bella stagione del rinnovamento del potere giudiziario, e che hanno segnato la storia degli ultimi decenni repubblicani, le inchieste e i processi più delicati. Il terrorismo rosso e nero, la mafia, la corruzione politica. La resistenza costituzionale invocata da Francesco Saverio Borrelli contro gli assalti e le leggi ad personam dell’era berlusconiana.
Per raggiungere l’obiettivo non sono stati messi in campo proclami, vendette, è bastato ricorrere all’arma preferita dei renziani: il fattore Età. All’articolo 2 («Disposizioni per il ricambio generazionale nelle pubbliche amministrazioni») il decreto Madia prevede il pensionamento dei magistrati che hanno raggiunto il settantesimo anno, entro la fine del 2015. Come se non bastasse, potranno essere sostituiti solo da candidati che garantiscano almeno tre anni di permanenza nell’ufficio, dunque che non abbiano già compiuto 67 anni.
VERTICI AZZERATI Via tutti senza possibilità di trattenimento. E senza eccezioni. Via l’intero vertice della Cassazione, dal primo presidente Giorgio Santacroce, classe 1941, entrato nella procura di Roma, il porto delle nebbie, nel 1970, a tutti i presidenti di sezione al gran completo, a partire da Antonio Esposito, estensore nel 2013 della sentenza di condanna definitiva per frode fiscale che ha allontanato Berlusconi dal Senato e dalla possibilità di candidarsi alle elezioni. C’è pure Giuseppe Maria Berruti, responsabile del Massimario della Cassazione - nominato dal ministro Orlando al vertice della commissione che doveva riscrivere il codice civile - è fratello dell’ex deputato di Forza Italia Massimo Maria Berruti, ex consulente Fininvest, processato per riciclaggio e dichiarato prescritto dalla Cassazione. Nomi rimbalzati per decenni nelle aule giudiziarie e sulle cronache come titolari dei casi di maggiore clamore: l’avvocato generale della Corte d’Appello di Roma Antonio Marini, che fu pm del processo Moro, il procuratore generale di Salerno Lucio Di Pietro (già pm della maxi-operazione anti-camorra del 1983 in cui fu arrestato Enzo Tortora), il procuratore di Marsala Alberto Di Pisa, incastrato nella vicenda del corvo della procura di Palermo contro il pool anti-mafia di Giovanni Falcone e poi assolto, il procuratore di Civitavecchia Gianfranco Amendola, pretore contro i reati ambientali negli anni Settanta e leader dei Verdi. E poi i posti chiave nei tribunali più importanti: spediti fuori ruolo, in un solo colpo, il presidente del tribunale di Roma Mario Bresciano e il presidente di Corte d’Appello di Napoli Antonio Buonajuto. Infine, le procure-vetrina. A Torino andrà via il procuratore generale Marcello Maddalena, a Milano il procuratore Edmondo Bruti Liberati (con il procuratore generale Manlio Claudio Minale e al presidente di Corte d’Appello Giovanni Canzio).
LA PARTITA DEL CSM Quattrocento poltronissime che scadono nei prossimi mesi e che andranno rimpiazzate con i sostituti nominati dal nuovo Consiglio superiore della magistratura appena eletto, guidato da Giovanni Legnini, uomo del Pd, politico esperto e prudente, uno che preferisce il dialogo allo scontro, passato dal governo Renzi (era sottosegretario all’Economia) alla vice-presidenza di Palazzo dei Marescialli. Tocca a lui gestire l’operazione ricambio: promozioni, punizioni, trasferimenti. In una situazione di turbolenza politica, in cui i membri laici (i politici eletti dal Parlamento), a differenza di quanto avveniva in passato, sembrano piuttosto digiuni in materia ma abbastanza uniti, mentre il fronte dei componenti togati (gli eletti dalla magistratura) si affaccia al grande rimescolamento rissoso e diviso. La scorsa settimana sono stati definiti i criteri per le nomine al vertice di 15 uffici giudiziari, a cominciare dalla procura di Palermo. Il Csm si è spaccato: da una parte compatti i laici, dall’altra i togati, frammentati.
I due consiglieri della destra, Elisabetta Alberti Casellati di Forza Italia e Antonio Leone dell’Ncd, votano compatti, anche se le divisioni nel campo berlusconiano si riflettono anche sulla politica della giustizia: emarginato Niccolò Ghedini, interlocutori del ministro Orlando sono Nitto Palma e Giacomo Caliendo. L’altro consigliere forzista eletto dal Parlamento, Pierantonio Zanettin, si è già spostato sulla Lega di Matteo Salvini e ha intrattenuto il plenum del Csm sulla riapertura del tribunale di Bassano Del Grappa, caro al governatore Luca Zaia. E poi i cani sciolti Balducci&Balduzzi, intesi come l’avvocato Paola Balducci, designata da Sel, e l’ex ministro di Scelta civica Renato Balduzzi, privo di referenti politici, l’ex sindaco di Arezzo Giuseppe Fanfani (Pd, tosco-renziano), la new entry Alessio Zaccaria votato dal Movimento 5 Stelle (ma lui, appena entrato, ha negato l’appartenenza grillina).
TUTTI SPACCATI Con uno schieramento politico così frammentato i consiglieri togati potrebbero avere un grande spazio di manovra. E invece i magistrati sono ancora più spaccati dei politici. Effetto Renzi, lo stesso che ha già rimescolato alleanze e cordate nei palazzi della politica? O, più in profondità, effetto della fine del ventennio berlusconiano, che aveva costretto le correnti dei giudici a mettere da parte le divisioni per fronteggiare l’attacco all’autonomia e all’indipendenza della magistratura? Di certo le vecchie famiglie, la sinistra di Magistratura democratica, il centro di Unità per la Costituzione e la destra di Magistratura Indipendente si presentano divise all’appuntamento con la più grande tornata di nomine degli ultimi anni. Una mega-spartizione che eccita i sostenitori del tradizionale manuale Cencelli e il partito degli innovatori che vorrebbe rimetterlo in discussione, per far avanzare una nuova razza togata. Più sensibile alla nuova stagione della rottamazione renziana.
Area, la corrente di sinistra, è divisa tra i Verdi movimentisti e l’antica Md, un tempo vicina al Pd ortodosso, oggi rappresentata nel Csm da Piergiorgio Morosini, gip del tribunale di Palermo, autore del duro documento contro il progetto di riforma della responsabilità civile del governo. UniCost, il grande centro, di cui fanno parte l’attuale presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli e l’ex Luca Palamara, oggi nel Consiglio, è storicamente alleata con la sinistra ma in crisi di identità, incerta se affidarsi al nuovo corso renziano o mettersi di traverso. E Magistratura Indipendente, l’ala moderata, è in una situazione paradossale. È capeggiata dal sottosegretario alla Giustizia del governo Renzi, Cosimo Ferri, quasi la personificazione del patto del Nazareno (toscano come il premier e come Denis Verdini, il fratello Jacopo è consigliere regionale di Forza Italia), così potente da essersi permesso di fare campagna elettorale via sms per i suoi candidati al Csm senza incorrere in sanzioni («indifendibile», lo aveva definito Renzi, poi però ha lasciato correre). Ha spedito nel Csm quattro consiglieri, ma contando sul 30 per cento dei voti avrebbe potuto eleggerne cinque o sei: meglio pochi e fedeli. Nella corrente militavano anche un geloso custode dell’indipendenza dei magistrati come Piercamillo Davigo, mente giuridica del pool di Mani Pulite, e il procuratore aggiunto di Messina Sebastiano Ardita, che ha preso le distanze da Ferri ed è sostenitore della linea dura contro il pacchetto di riforme del ministro Orlando. Per non perdere il contatto con la sua base, Ferri capeggia la rivolta dei peones dei tribunali sulle ferie, gioca a fare il sindacalista, il Camusso dell’Anm, pur essendo impegnato nel ministero di via Arenula. Di lotta e di governo. In attesa che arrivi il momento di sedersi al tavolo della lottizzazione.
IL CASO MILANO Il primo momento della prova è fissato per la prossima settimana, quando il Csm dovrà prendere posizione sul caso più spinoso, il violento scontro di Milano tra il procuratore Bruti Liberati e l’aggiunto Alfredo Robledo, degenerato a colpi di denunce reciproche, interviste sui giornali, insinuazioni velenose, colpi bassi. Nel Palazzo dei Marescialli c’è un’agitazione che non si vedeva da decenni. Porte che si aprono e si chiudono al primo piano dove ci sono le stanze dei consiglieri, molto affollata l’anticamera di Paola Balducci che presiede la prima commissione, quella sulle incompatibilità ambientali che voterà sul destino dei due pm milanesi insieme alla settima commissione. In gioco c’è la guida della procura più importante, quella che da vent’anni si è incaricata di mettere sotto processo e portare a condanna il Palazzo della politica, da Bettino Craxi a Silvio Berlusconi. Sono cambiate le stagioni e mutati i governi, ma la scalinata del tribunale di Milano è sempre rimasta un simbolo di legalità, da difendere o da attaccare. E Bruti Liberati è un leader storico di Md e dell’Anm. Un voto salomonico (o pilatesco, a seconda dei punti di vista) del Csm per trasferire i due litiganti sarebbe interpretato come un sipario che si chiude, o uno sfregio, su quella lunga era. Un colpo mortale alla credibilità degli uffici giudiziari di Milano.
LA PROVA PALERMO La seconda decisione cruciale è la nomina del nuovo capo della procura di Palermo. Nei palazzi circola la candidatura di Guido Lo Forte, attuale procuratore a Messina, messa in quota ai sostenitori del processo della trattativa Stato-mafia. Sergio Lari invece, capo dei pm antimafia a Caltanissetta, a Palermo viene considerato troppo “morbido” nei confronti del processo sulla trattativa. E c’è una terza candidatura, Franco Lo Voi, rappresentante italiano ad Eurojust con un passato da pm antimafia. Tre magistrati di ottimo livello. Lo Forte è più attento al profilo tecnico, Lari è più istituzionale e tende a creare un clima di squadra, Lo Voi garantisce otto anni, una lunga stagione di stabilità in un ufficio che ha bisogno di riprendere stategia e compattezza. Lo Forte è appoggiato da Unicost, Lari da Area e Lo Voi da Mi e laici, ma nessuno nel Csm si è ancora sbilanciato. Milano e Palermo, le due procure storiche, saranno la cartina di tornasole dell’esistenza o meno di un’eventuale traduzione del patto del Nazareno Renzi-Berlusconi dentro il Csm.
«Il nostro mondo in questi anni è già cambiato, in realtà. Non sempre in meglio», sospira un alto magistrato. «Le riforme dell’accesso alla professione hanno provocato un invecchiamento generale, i giovani entrano in ruolo negli uffici giudiziari sempre più tardi: a 35 anni, spesso poco retribuiti, più sensibili alle rivendicazioni sindacali che alle questioni di principio. E la rendita di posizione è finita. Non c’è più il berlusconismo, oggi processi come quello sulla morte di Stefano Cucchi o sul terremoto dell’Aquila rimettono in discussione la riconoscibilità sociale del ruolo della magistratura».
I punti di riferimento storici stanno per essere spazzati via dal fattore Età. Lasciando il posto a una generazione più giovane, ma anche più esposta ai condizionamenti del potere politico. Quattrocento posti subito, un terzo del totale, gli altri 800 a seguire. Nessun Csm, nessuna maggioranza politica ha avuto un’occasione così per ridisegnare completamente la mappa del potere giudiziario. Anche nel campo della giustizia, come in quello della politica, Renzi si trova di fronte al vuoto. Vuoto di potere, di gruppi dirigenti, di nomi attrezzati a gestire la prossima fase. Alla vigilia delle nomine, la magistratura arriva con le correnti che non tengono più, sostituite dalle cordate, una nuova razza togata che punta a ereditare i vantaggi della grande rottamazione, ansiosa di durare al potere decenni. In una parola: scalabile. Come direbbe Matteo Renzi.