Gli scontri a Roma sono appena l'inizio. Da Torino a Milano fino a Napoli, nelle grandi città il malcontento cresce e gli episodi di violenza aumentano. E la difficile convivenza tra italiani e immigrati fa esplodere le tensioni sociali accumulate da anni. Cavalcate dalla destra populista

Un mercoledì di mezzo autunno, via Chiesa della Salute, popolosa semiperiferia di Torino. Quattro vigili urbani passano a multare le auto in seconda fila. Dai negozi iniziano a uscire i commercianti e i clienti, proprietari delle vetture in contravvenzione. Il diverbio diventa rapidamente un’aggressione verso gli agenti: «Quando vi chiamiamo per le rapine non venite, siete capaci di fare solo le multe». I vigili finiscono in ospedale. Poco dopo, immancabile, il comunicato di Fratelli d’Italia, il partito di Giorgia Meloni: «Zingari e abusivi impuniti mentre commercianti e cittadini normali vengono torchiati come in Corea del Nord».

Già, non si sono accesi solo al quartiere Tor Sapienza di Roma i focolai della nuova guerra civile italiana. Quella che rischia di scoppiare in mezzo alla più lunga crisi economica della storia repubblicana, nelle strade di città sempre più rabbiose, nelle mani e nelle menti di un ceto medio impoverito, impaurito, quindi aggressivo.
O spesso anche fra classi ancora più basse, la cui preoccupazione principale è semplicemente avere una casa in cui vivere.

Come a Milano, lunedì 17 novembre: all’alba comincia lo sgombero degli appartamenti occupati in via Vespri Siciliani, zona sud della città. La polizia si presenta in forza: caschi, scudi e manganelli. «Vengono in antisommossa per buttare fuori una famiglia», si lamenta una ragazza. Rapidamente si arriva alle cariche, ai lacrimogeni, al lancio di pietre. Esce un uomo con la testa sanguinante.

Va in scena il conflitto tra gli assegnatari di case popolari e gli occupanti, quasi sempre italiani anche loro, che negli stessi palazzi hanno forzato le case vuote o, a volte, quelle lasciate per qualche ora incustodite: «Abbiamo paura di allontanarci, non possiamo nemmeno andare a fare la spesa perché potremmo tornare e trovare qualcuno dentro», ripete chi paga l’affitto all’ente regionale.

Chi entra avendo il bisogno ma non il diritto, lo fa in due modi: affidandosi all’«immobiliare politica», quella dei centri sociali che favoriscono le occupazioni (soprattutto a San Siro, al Ticinese, ora anche al Corvetto); o ricorrendo all’«immobiliare criminale» cioè alle gang di nomadi, maghrebini o italiani che sfondano le porte e “vendono”. Si pagano fino a 2-3 mila euro. In contanti, prima della consegna.

Fatti
Privilegi agli stranieri, quante bufale Ecco la verità e alcuni miti da sfatare
24/11/2014


C’è sofferenza e insofferenza nelle periferie delle grandi città. E a Milano anche l’idea del cardinale Scola di aprire per l’Expo un refettorio per poveri nel quartiere Greco, nei locali della Caritas, si è scontrata con una raccolta firme dei residenti; e poi con un gesto vandalico: vernice verde su citofoni e portoni. Nemmeno la Chiesa riesce più a legittimare la solidarietà. Non parliamo poi degli appelli contro i campi nomadi, che non si contano più, in tutta Italia.

A Napoli il presidente dell’Ottava Municipalità «per rassicurare i cittadini inferociti» propone lo sciopero fiscale: niente pagamento della Tarsu finché non sarà “bonificato” (testuale) l’insediamento di Scampia. Ancora a Torino, sono i lavoratori a finire gli uni contro gli altri: facchini e manovali, di cui molti migranti, da un anno protestano contro le condizioni di lavoro nel grande mercato. Stipendi bassi, orari lunghi, contratti veri pochi. Le prime proteste risalgono ai tempi dei Forconi, ma nelle ultime settimane si sono intensificate, con il supporto degli “antagonisti”, fino agli scontri con la polizia. Poi ecco l’incidente: un ambulante che cerca di entrare nel mercato e affronta i manifestanti. Vuole lavorare. Scoppia una rissa. E lui muore, colpito da un infarto.

Quando c’è scarsità di servizi, la gente esasperata protesta e se la prende con le istituzioni sì, ma più spesso con chi “ruba” il lavoro, le case, gli asili. Non c’è giardino pubblico in cui non si ascolti la lamentela di una mamma contro i migranti perché, con le loro famiglie numerose, «ci passano davanti nelle graduatorie». C’è spesso l’idea che lo facciano per via di un privilegio riconosciuto dai “politici”: e non, come in realtà accade, in virtù di un punteggio assegnato in base al reddito e alla composizione del nucleo famigliare. La scarsità di posti genera l’invidia sociale che non è però indirizzata verso chi ha molto, ma contro chi ottiene un posto all’asilo pubblico o una casa popolare.

Interattivo
Roma, la periferia è una vera polveriera Ecco la mappa delle sette zone calde
24/11/2014


Guerra tra poveri: nulla di nuovo, forse, se non per le dimensioni della crisi economica e quindi per i tagli agli enti locali e al welfare, per gli autobus sempre troppo pochi e sempre troppo pieni, a un euro e mezzo a biglietto. In più, per la prima volta in Italia, questo conflitto ai piani bassi della piramide sociale s’intreccia con la società multietnica.

Secondo l’antropologa Annamaria Rivera, che insegna all’Università di Bari, tuttavia i protagonisti di queste vicende non sono quasi mai poveri alla stessa maniera. Non lo erano, ad esempio, nell’altro recente caso di cronaca capitolina, nell’assassinio del ventottenne Muham­mad Sha­h­zad Khan, pachistano, massacrato a calci e pugni da un diciassettenne romano: lì, per Rivera, «il livello di potere, la posi­zione sociale, non era certo la stessa tra il bullo di quartiere che uccide, spalleggiato dal genitore, e la sua vittima inerme, già annien­tata dalla per­dita del lavoro e dell’alloggio, dal ter­rore di per­dere pure il per­messo di sog­giorno».

Rivera vede piuttosto un susseguirsi di «veri e propri pogrom» e accusa per questi «il melange di ignoranza, intolleranza, intossicazione da falsi messaggi mediatici lasciati ripetere a cittadini esasperati senza smentire mai, in diretta, i luoghi comuni. A ciò si aggiunge il ruolo dell’estrema destra che indirizza il malcontento verso falsi bersagli».

Intervista
'Gli italiani non sono razzisti, ma abbandonati'
20/11/2014


Ecco, l’estrema destra. Dalla Nuova “Lega nazionale” di Matteo Salvini (balzata oltre il 10 per cento proprio per questo clima, secondo l’ultimo sondaggio di Ilvo Diamanti), fino a Fratelli d’Italia, Casa Pound, Forza Nuova etc. Quando Papa Bergoglio commenta i fatti di Tor Sapienza invitando a «non cedere allo scontro», ecco che il leghista Roberto Calderoli subito gli risponde: «Perché in Vaticano non ci sono immigrati irregolari?». E se la manifestazione romana del “Coordinamento ribellione contro il degrado” si proclama «apartitica», ecco che i suoi striscioni usano la stessa font degli ultras neofascisti da stadio; e i manifesti a pennarello sono scritti sul retro di quelli avanzati dalle ultime elezioni ai partitini di estrema destra.

Il giornalista britannico Mehdi Hasan, editorialista politico dell’Huffington Post Uk, alla questione ha dedicato un’approfondita analisi che parla del Regno Unito ma arriva anche all’Italia. E spiega: «Far finta che il razzismo non giochi un ruolo nel generare ostilità e ansia sarebbe ingenuo, se non in malafede.

Ad esempio, un recente studio ha certificato che le zone con una più bassa concentrazione di immigrati sono spesso quelle che esprimono la massima preoccupazione per l’immigrazione». Come dire: la questione dello scontro fra etnie viene montata oltre misura per spostare a destra, e verso la parte più estrema della destra, un malcontento che in realtà deriva da altri problemi sociali ed economici, non di convivenza razziale.

I dati dello studio inglese ricordano anche la percezione degli italiani: è emerso che qui da noi “pensiamo” di avere il 20 per cento di musulmani quando questi sono solo il 4 per cento della popolazione. Ancora più ampia è la forbice sull’immigrazione: gli italiani sono convinti di convivere con un 30 per cento di immigrati, quando invece sono solo il 7 per cento. Insomma, c’è un’immigrazione “percepita” molto maggiore di quella vera. Forse perché attribuiamo agli stranieri la diminuzione di servizi, di stato sociale, di opportunità: un calo dovuto invece a tutt’altre cause.

La copertina dell'Espresso
Diversa, invece, la questione della microcriminalità. Che è oggettivamente in aumento: a rivelarlo sono i dati rilasciati dallo stesso Ministero degli Interni sui furti nelle abitazioni, le rapine, gli scippi, i borseggi. Ma anche in questo caso, è difficile non vedervi un nesso con la recessione: che costringe lo Stato a tagliare sulla sicurezza nei quartieri. E non si parla solo di uomini, ma anche di mezzi: a Cremona, ad esempio, metà delle auto a disposizione della polizia sono ferme per guasti e mancano i soldi per ripararle. Il sindacato Sap ha lanciato un appello a «benefattori» locali perché si possano rimettere in strada. La polizia che chiede la beneficenza ai cittadini per garantire i cittadini: una metafora quasi grottesca.

A volte l’insicurezza diffusa tracima in Internet, e non solo a livello di commenti rabbiosi sui social network: è dei giorni scorsi la lettera aperta di uno dei più noti professionisti italiani del Web, Paolo Valenti, 48 anni, milanese, che dopo aver subìto una serie di furti ha scritto nel suo blog al prefetto della sua città: «Se lo Stato se ne frega, ci permetta di utilizzare altri strumenti. Se non è in grado di assicurarci la sicurezza, può delegarla a noi cittadini». Insomma, Far West.

A favorire gli scontri nei quartieri, poi, c’è la struttura stessa delle città. È questa la riflessione dell’urbanista Paolo Berdini: «Nelle periferie italiane si vive sempre più chiusi. C’è l’assenza fisica dei collegamenti con il centro della città che ci ricorda come quelle siano isole, peraltro quasi mai felici, anzi perfette per innescare conflitti interni».

Le periferie sembrano costruite per non disturbare chi ha la fortuna di non viverci: «Spesso non si tratta neanche di cattivi progetti: non lo è ad esempio quello di Tor Sapienza, ma sono opere incompiute: nel grande cortile tra i palazzoni doveva arrivare la metropolitana e dovevano esserci i servizi. Oggi non arriva la metro e vengono tagliati i pochi bus. Ci si sente lontani da tutto. Bisogna completare le opere e poi chiudere definitivamente la fase dell’espansione urbana: non è un capriccio ambientalista ma è l’unica via per città vivibili».

Poi, certo, c’è il fatto che è sulle periferie, sui quartieri più colpiti dalla crisi, che le amministrazioni di tutta Italia fanno sempre ricadere l’onere dell’accoglienza. Roma è ancora un caso emblematico, ma non è l’unico: «Nei quartieri centrali non ci sono né campi rom, né centri di accoglienza. I più vicini sono a Ponte Marconi, prima periferia sud, o dopo la tangenziale est, sulla Salaria», dice Berdini. «Eppure ci sarebbe il modo per distribuire il carico: a Prati o al Flaminio, quartieri centrali e benestanti, ci sono molte caserme abbandonate. Nei progetti di recupero però non si prende neanche in considerazione di destinare all’accoglienza almeno una porzione di questi stabili immensi. Sarebbe un bel messaggio, un forte argomento da contrapporre alla rabbia».

Invece i rifugiati di Tor Sapienza sono stati spostati in un’altra periferia, forse ancora più critica, l’Infernetto. Che infatti ha già cominciato la sua guerra tra poveri.

hanno collaborato: Sara Dellabella, ?Fabio Lepore, Piero Messina, ? Ginevra Nozzoli e Michele Sasso