Combattere su tre fronti: diagnosi sempre più precoci. Terapie genetiche. E una rivoluzione: parlare al malato, non solo curare ?la sua malattia 

Fino al secolo scorso pensavamo alla ricerca contro il cancro prevalentemente come ricerca di farmaci, anzi di un farmaco che, come è successo con la penicillina per le infezioni, rappresentasse la soluzione per il cancro. Poi è arrivata la genomica , che ha acceso ancor di più le speranze di una terapia definitiva, ma ha confermato che la pillola anticancro è un sogno irrealizzabile, perché il tumore, studiato attraverso i geni, appare come una malattia ancora più complessa di quanto avessimo ipotizzato. In realtà si tratta di tante malattie differenti.

Oggi se pensiamo alla ricerca oncologica, dobbiamo quindi immaginare tre frontiere. La prima è la frontiera della diagnostica precoce. Va ricordato innanzitutto che i risultati ottenuti fino ad oggi in termini di riduzione di mortalità, sono dovuti in buona parte alla anticipazione della diagnosi. Uno studio pubblicato su “Annals of Oncology” stima che nel 2014 in Europa saranno evitati 250 mila morti per cancro grazie alla prevenzione. Il perché è ormai risaputo, ma vale la pensa di ripeterlo: più un tumore è piccolo, maggiore è la sua probabilità di guarigione. E minore è il rischio degli effetti collaterali delle terapie, che possono influire negativamente sul progetto di vita individuale.

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Nella convinzione che la diagnosi precoce salva la vita e la sua qualità, i limiti dell’anticipazione vengono spinti sempre più in là, grazie alla tecnologia associata alle conoscenze del Dna, il cosiddetto Imaging Molecolare. Un esempio in questo senso sono i MiRna, microframmenti di materiale genetico che il tumore può rilasciare nel sangue. La forza rivoluzionaria dei MiRna è che con un semplice esame del sangue saremo in grado di rilevare l’eventuale presenza di un tumore in fase così iniziale da poter essere trattato con interventi per nulla invasivi e con probabilità di guarigione vicine al 100 per cento. Oggi il dosaggio dei MiRna nel sangue è in sperimentazione sul tumore del polmone. Ma in laboratorio abbiamo già identificato questi marker per il tumore del seno e altri organi.

Una grande rivoluzione è intanto già in atto grazie alle prime applicazioni di un nuovo esame di Risonanza Magnetica: la Diffusion Whole Body. Studiando una tecnica che permette di individuare cellule molto vicine fra loro - come sono quelle dei tessuti tumorali - i radiologi e fisici dell’Istituto Europeo di Oncologia, collaborando con gli altri due centri al mondo, hanno messo a punto un esame in grado di identificare tumori di soli 3 o 4 millimetri, senza usare radiazioni. La tecnica è stata studiata su oltre 600 pazienti in cura allo Ieo, con risultati insperati, già pubblicati sulle riviste internazionali. Questa scoperta ha infatti cambiato la rotta della diagnosi precoce, che da esame del singolo organo diventa esame dell’intero organismo.

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La visione d’insieme allarga l’efficacia diagnostica, riducendo al minimo il disagio per le persone. Dobbiamo perfezionare le conoscenze per arrivare a sostituire con la Diffusion Whole Body gli esami strumentali che oggi salvano la vita: mammografia per il seno, Tac a basse dosi per il polmone, colonscopia. Tuttavia la strada è segnata e lo screening globale cambierà il nostro modo di curare, che dovrà adattarsi alle dimensioni millimetriche.

La seconda frontiera dunque è quella della terapia. L’anticipazione della diagnosi ha permesso di eliminare, o ridurre al minimo, i danni delle terapie anticancro. Se il tumore è localizzato e di piccole dimensioni, la chirurgia ha imparato a tener conto non solo della durata della vita, ma anche della sua qualità. Già oggi è un’eccezione, per esempio, la perdita della voce in caso di tumore della laringe, o la perdita della potenza sessuale in caso di tumore della prostata. Rimangono alcuni “ossi duri”, come il tumore del pancreas e del cervello, difficili da individuare per tempo e che dunque richiedono terapie invasive dal risultato spesso limitato. L’ evoluzione futura delle terapie locali (che intervengono cioè sull’area colpita dalla malattia) va ancora in direzione della precisione e della microinvasività: il chirurgo impara ad usare la chirurgia robotica, il radioterapista ad applicare le nuove particelle pesanti (ancora più efficaci e mirate) e a effettuare la radioterapia intraoperatoria per i tumori del seno o di risolvere il trattamento per la prostata in cinque o addirittura in una sola seduta.

Più difficile è stato lo sviluppo delle terapie sistemiche, cioè i farmaci. È qui che maggiormente avvertiamo le incertezze della genetica, che, dopo averci rivelato la complessità del processo tumorale, ha difficoltà a trovare nuove molecole in grado di fermarlo. Certo, i risultati ci sono: i farmaci molecolari, cosiddetti a bersaglio - che nascono dall’identificazione del danno nel Dna che ha dato il via al tumore, e dalla scoperta di una molecola in grado di ripararlo - sono circa 50 nella pratica clinica e centinaia in studio. Molti sono efficaci, ma nell’insieme l’impatto è stato fino ad ora troppo limitato. Il principio ha comunque dimostrato la sua validità e quindi la ricerca continuerà a indagare in questa direzione, allargando lo studio dei target anche alle cellule staminali del cancro, che sappiamo essere responsabili della diffusione della malattia.

Ma c’è una terza frontiera: quella dell’umanizzazione del rapporto medico-paziente. Di fronte a un malato cosciente dei suoi diritti e informato, anche se sempre profondamente disorientato da una diagnosi di cancro, il medico deve saper instaurare un rapporto di fiducia, che lo aiuti a stabilire un contatto empatico e gli permetta di capire e partecipare alle decisioni che il paziente prenderà nel corso della cura. Non basta togliere un tumore dal corpo; bisogna saperlo togliere dalla mente. La fiducia non si ottiene con la firma di un Consenso Informato, ma con il dialogo.
Per curare qualcuno dobbiamo sapere cosa pensa della vita , quali sono i suoi progetti, i suo affetti e i suoi valori. La regola d’oro è che questo rapporto si crei dall’inizio: la persona deve avere il tempo di raccontare se stessa. Quante volte un paziente esce dallo studio con la testa ancora piena di domande e paure che non è riuscito ad esprimere? troppe, sicuramente.

Penso che sia tempo di recuperare la parte buona dell’antica medicina olistica, che era la sola medicina esistente fino al ‘700 e si occupava del malato nella sua globalità psico-fisica. Poi venne la medicina d’organo e la specializzazione e poi ancora la superspecializzazione, che ha indotto i medici a concentrarsi sulla guarigione di un organo, dimenticando l’insieme di cui fa parte. Il terzo millennio sarà quello dell’unione delle due componenti della professione medica, quella scientifica e quella umana, fra le quali sta, al centro, il paziente.

ha collaborato Gabriella Verdi