Venezia non si è ancora ripresa dall’addio dell’industria chimica. Se n’è andata nel 2009 ma i dipendenti hanno tagliato il cordone ombelicale con quelle aziende fantasma da pochi giorni: «A Porto Marghera la Vinyls aveva 270 dipendenti e lo scorso 7 dicembre è scattata la mobilità, nella quale sono precipitati i 105 che non hanno trovato un altro impiego», dice Massimo Meneghetti della Cisl, che punta il dito sul valzer di presunti cavalieri bianchi pronti a salvare l’azienda e puntualmente spariti nel nulla.
Ai 310 della veneta Montefibre è andata anche peggio. Mentre erano in cassa hanno fatto corsi di formazione per essere riassunti da una società del porto, che tuttavia, nel frattempo, è entrata in crisi. E così, dopo sei anni di ammortizzatori sociali, anche per loro è scattata la mobilità. Un compratore è invece arrivato alla Acc di Mel, Belluno, azienda di compressori per frigoriferi. Lo ha trovato il commissario straordinario Maurizio Castro, si chiama Wanbao, un gruppo cinese che si è impegnato a far rientrare in azienda i 455 addetti, di cui 300 subito.«Qui la cassa ordinaria è cominciata nel 2005, poi tra il 2006 e il 2012 è toccato alla straordinaria, con 50 addetti che avevano scelto di starci “fissi”: ne avevano approfittato soprattutto le donne, prendendo circa 750 euro al mese, più qualcosa per i figli a carico. Senza quei volontari, avremmo fatto più rotazione tutti quanti», ricorda Nadia De Bastiani, della Fiom interna, aggiungendo che dal 2012 è stato fatto anche ricorso alla mobilità lunga. Nove anni di travagli conclusi con una ripartenza sotto nuovo padrone.
Anche i 900 ex dipendenti della Ocean, che fino a dieci anni fa era la più grande azienda della Bassa Bresciana e faceva elettrodomestici, avevano tanto sperato nell’avvento di un salvatore. L’hanno atteso per 12 anni, dal 2001 al 2013, aggrappati all’ennessima proroga della cassa integrazione. Alla fine solo dieci di loro sono rientrati nel progetto di reindustrializzazione (che inizialmente doveva assumerne 266). Adesso qualcuno ha cambiato mestiere, tanti sono andati in pensione, ma ci sono ancora 430 addetti non ricollocati e in mobilità. Sulle loro spalle non pesa solo l’incertezza del futuro, ma anche le remore degli imprenditori locali ad accoglierli nelle loro aziende perché, dicono gli industriali, dopo così tanti anni di lontantanza dalla fabbrica potrebbero aver perso l’abitudine al lavoro.
«La sequela di cassa integrazione e mobilità alle Case di Cura Riunite di Bari, che sono state pure in amministrazione straordinaria, è durata vent’anni. Ora tutti gli strumenti disponibili sono finiti. Quando la crisi è cominciata i dipendenti erano 3 mila e per lunghi periodi ce n’erano mille a casa», è la ricostruzione di Pietro Boccuzzi, della Cisl di Bari. Una storia presa ad esempio da Pietro Ichino, economista e parlamentare di Scelta Civica, che nel portarla all’attenzione del Senato si chiese retoricamente «quale malato potesse affidarsi alle competenze professionali maturate in 18 anni di cassa integrazione».
Sarebbero invece pronti a dimostrare quanta esperienza ancora possiedono gli 800 dipendenti della De Tomaso, azienda automobilistica di Grugliasco, Torino, che produsse anche la mitica Pantera, quand’era del fondatore Alejandro. Qui le tute blu hanno cominciato ad andare in cassa nel 2008. Prima a singhiozzo, poi a zero ore, fino al fallimento della società, nel 2012. Nonostante le ventilate manifestazioni d’interesse, nessuno s’è fatto avanti per rilevare la società, che nel 2009 era stata acquisita da Gianmario Rossignolo. L’ex manager di Fiat e Telecom è finito nei guai con la legge per truffa ai danni dello Stato. A fine 2014 scatta la mobilità, da uno a tre anni a seconda dell’età. E addio De Tomaso.
Un altro vistoso caso di accanimento terapeutico o abuso di ammortizzatori sociali è la Carbosulcis, miniera sarda oggi avviata alla chiusura dopo un lungo calvario. «Finalmente si è stabilito che la miniera non può essere competitiva e la si chiuderà, dopo averla messa in sicurezza, con l’accordo dell’Unione europea che, nel 2012, aveva avviato una procedura d’infrazione per i 405 milioni di euro di contributi pubblici dal 2001 al 2010», dice l’amministratore unico Luigi Zucca. Carbosulcis è balzata agli onori delle cronache recenti anche per “merito” del suo ex dipendente Carlo Cani, detto anche Charlie Dogs il jazzista, per la sua infinita passione per la musica.
Assunto nel 1980 e andato in pensione nel 2006, Charlie ha raccontato di non aver mai praticamente lavorato. «Io e il carbone non abbiamo legato. Andavo dai medici, chiedevo cure, capivano, mi accontentavano», ha dichiarato, ridendo, a “La Nuova Sardegna”. In realtà, precisa Zucca, Cani era un abituale assenteista ma ha lavorato più di quanto dica. E come tutti, in quella miniera, si è fatto dieci anni di cassa integrazione filata tra il 1993 e il 2002. Commenta un esperto di questioni di lavoro: «La verità è che a noi italiani, tutto sommato, uno come Charlie il jazzista ispira simpatia. In Germania lo disprezzerebbero e una “carriera” come la sua sarebbe stata impossibile».