Avvocati e banchieri strapagati garantivano: «I conti sono a posto». E adesso, dopo anni di cattiva gestione, la società chiede il conto ai precedenti amministratori
Si chiama “Restructuring deal of the the year”. È il premio che ogni anno la rivista londinese “IFLR”, seguitissima negli ambienti legali di mezzo mondo, attribuisce all’operazione finanziaria giudicata più brillante e innovativa.
Nel 2013 il riconoscimento è andato allo squadrone di professionisti che dodici mesi prima aveva impostato, seguito e organizzato la fusione tra
Seat Pagine Gialle e la società lussemburghese
Lighthouse. Tra i premiati, a suo tempo accorsi al capezzale dell’azienda italiana, c’erano nomi prestigiosi, vere e proprie multinazionali della consulenza legale come Latham & Watkins, Linklaters, Clifford Chance, Allen & Overy.
Questione di punti di vista. Ad aprile dell’anno scorso, mentre gli avvocati mettevano in bacheca le targhe ricordo, il “deal of the year” si era già trasformato in una scorciatoia verso l’inferno. Travolta dai debiti e da un decennio di guai, l’azienda delle Pagine Gialle, che è quotata in Borsa, è stata costretta a ricorrere al concordato per evitare il crac. Un concordato col botto, perché tre settimane fa, il quattro marzo, l’assemblea dei soci di Seat ha deciso di chiedere il conto del disastro agli amministratori che si sono succeduti al comando del gruppo a partire dal 2004.
La clamorosa iniziativa giudiziaria, con tanto di richiesta di risarcimento monstre, addirittura
2,4 miliardi, ha riportato alla ribalta della cronaca la triste saga delle Pagine Gialle. Tra gli altri, verranno chiamati a rispondere delle loro scelte anche manager, avvocati e cattedratici come Gian Maria Gros Pietro, Enrico Giliberti e Maurizio Dallocchio: tutti ben conosciuti nel mondo degli affari nostrano, con un curriculum ricco di incarichi al vertice di importanti società. I giudici si occuperanno di fatti che risalgono fino a un decennio fa, quando i fondi all’epoca azionisti (Bc partners, Cvc, Investitori associati, Permira) prelevarono dalle casse di Seat un superdividendo da 3,6 miliardi per far fronte ai debiti contratti per l’acquisizione del gruppo.
Storie vecchie, quelle. Ma la domanda delle domande è un’altra e rimanda a tempi molto più recenti. Com’è stato possibile che un’azienda ristrutturata e salvata a settembre del 2012 sia arrivata al capolinea del concordato nel giro di soli sei mesi? Com’è stato possibile che un gruppo di qualificati ed esperti professionisti abbia garantito la sostenibilità di un piano che, nei fatti, ha solo prolungato l’agonia della società?
Si ritorna così al famigerato “deal of the year”, cioè alla fusione tra Seat e Lightouse, che poi sarebbe il veicolo finanziario lussemburghese che anni prima aveva collocato obbligazioni per 1,3 miliardi destinate a finanziare le Pagine Gialle. A metà del 2011, con i conti in rosso e una montagna di debiti da pagare (quelli scaricati dai fondi azionisti) gli amministratori di Seat, a quel tempo presieduta dall’avvocato Giliberti, decidono di varare la fusione con Lighthouse. Ad agosto del 2012, quando va in porto la complessa operazione, i titolari delle obbligazioni emesse dalla società del Granducato diventano azionisti del gruppo italiano, che vede ridursi di 1,3 miliardi il suo debito.
A libro soci compaiono nuovi nomi. La quota di controllo passa a Anchorage, Monarch, Sothic, sigle che rimandano a fondi specializzati in investimenti ad alto rischio. Una volta trasformate le loro obbligazioni in titoli quotati in Borsa, questa pattuglia di azionisti liquida l’investimento, incassa i guadagni e abbandona la barca. Un tempismo eccezionale, perché poco dopo la scialuppa di salvataggio affonda miseramente.
Infatti, il consiglio di amministrazione insediatosi a ottobre del 2012 in rappresentanza dei nuovi azionisti, si accorge ben presto che Seat non può farcela. Gli avviamenti in bilancio vengono praticamente azzerati, con una perdita a conto economico di 1,8 miliardi, perché non più adeguati alle condizioni di mercato. A quel punto la sentenza è già scritta e a fine febbraio 2013 il neopresidente Guido de Vivo e l’amministratore delegato Vincenzo Santelia portano i libri in tribunale con la richiesta di concordato.
Che cosa è successo? Com’è che le Pagine Gialle si sono improvvisamente sgonfiate? Nemmeno un anno prima, ai tempi della fusione con Lighthouse, nessuno degli esperti al lavoro sul bilancio di Seat aveva espresso dubbi in merito al valore degli avviamenti. Sul piano industriale, tema chiave per valutare le prospettive del gruppo, si erano esercitati a vario titolo la banca d’affari Rothschild, i consulenti della Bain & co, la società di revisione Price Waterhouse. Tutti d’accordo. Secondo gli esperti l’azienda era in grado di affrontare un mercato già allora in forte calo causa recessione.
Anche Lorenzo Pozza, il docente universitario chiamato ad attestare la fattibilità del risanamento ai sensi della legge fallimentare, aveva dato il suo via libera. Anzi, ancora a giugno del 2012, cioè otto mesi prima del capolinea del concordato, Pozza scriveva che «non emergono scostamenti tali da modificare il giudizio di ragionevolezza del piano». E il collegio sindacale? Come si erano espressi i professionisti a cui per legge spetta il controllo sulle attività sociali? Enrico Cervellera, Andrea Vasapolli e Vincenzo Ciruzzi all’epoca non formularono obiezioni. Il terzetto dei sindaci, rimasti in carica anche con la nuova gestione, nei giorni scorsi è uscito allo scoperto per contestare l’azione di responsabilità promossa contro i precedenti amministratori. A metà del 2012 non c’erano «solide ragioni» per ipotizzare che il piano industriale formulato pochi mesi prima potesse rivelarsi inattendibile. Questa, in breve, la posizione dei sindaci. I quali, a conferma della correttezza del loro lavoro, citano le previsioni sull’andamento del mercato pubblicitario, formulate dall’agenzia Nielsen tra il 2011 e la metà del 2012. La fonte di questi dati, ammettono i professionisti, è la stessa Seat. Sarebbe a dire che i controllori hanno preso per buone, senza ulteriori verifiche, le informazioni fornite dai controllati.
Questione chiusa, ormai. I sindaci sono ancora in sella. E Seat si è aggrappata al salvagente del concordato. Restano agli atti le parcelle milionarie pagate ad avvocati e banchieri d’affari per la fusione con Lighthouse. Non basta, perché nel 2012 i creditori di Seat hanno ricevuto un incentivo cash per dare via libera a quello che, sulla carta, doveva essere il salvataggio del gruppo. In gergo tecnico si chiama “consent fee”. Spiccioli? Macché. Le Pagine Gialle hanno versato 25 milioni. Con tanti saluti ai piccoli azionisti, rimasti con un pugno di mosche.