A Bologna, in un'aula di tribunale gremita di studenti, acceso confronto tra i giornalisti e gli avvocati del presunto boss che ha più volte minacciato il collega dell'Espresso

L'aula del tribunale di Bologna è piccola e angusta e il poco spazio riservato al pubblico è per fortuna pieno di studenti bolognesi. Sono ordinati e silenziosi per il rispetto al luogo in cui si trovano. Il loro sguardo è puntato su una piccola gabbia per detenuti, a sinistra dell'aula, fatta di pareti di vetro blindato, dentro la quale è rinchiuso l'uomo che odia l'informazione e i giornalisti modenesi.

Intendiamoci, odia quell'informazione e quei giornalisti che parlano di lui come un imprenditore di Modena accusato di essere molto vicino alla 'ndrangheta, e per questa collusione con la criminalità organizzata è stato arrestato. E adesso processato.

Lui è Nicola Femia, originario della provincia di Reggio Calabria, che le intercettazioni raccontano come ha spinto un suo complice a minacciare il giornalista Giovanni Tizian solo perché aveva scritto dei suoi affari sulla Gazzetta di Modena. Una minaccia che ha portato Tizian a essere posto sotto tutela su richiesta della procura di Bologna che seguiva l'indagine ed ha subito annusato il pericolo per il giornalista.

Un'aula di giustizia, questa di Bologna, non abituata a processare imputati di mafia. Infatti sono poche le sentenza sull'associazione mafiosa in Emilia Romagna.

Femia stamani è tornato a lamentarsi della «gogna mediatica» attivata nei suoi confronti ed è tornato a puntare il dito su Tizian (dopo che lo ha fatto anche nella precedente udienza), questa volta pronunciando per quattro volte il nome del giornalista. Secondo il difensore del presunto boss «non si tratta di minacce», ma «solo di un chiarimento». Quelle parole, però, pronunciate in udienza da un imputato che risponde di associazione per delinquere di stampo mafioso purtroppo hanno il peso di una pesante intimidazione, che non necessariamente deve essere fatta indossando la coppola o imbracciando la lupara.

Oggi, purtroppo, i metodi mafiosi sono cambiati rispetto al passato. Si sono affinati. E il messaggio arriva dritto al destinatario. E i giornalisti per questo motivo si sono stretti attorno a Giovanni Tizian, oggi cronista de l'Espresso. Se come dice il difensore non si tratta di minacce, allora ci attendiamo per la prossima udienza che Femia chiarisca e chieda scusa a Tizian.

In aula c'erano gli studenti, ma anche i volontari dell'associazione Libera, e il presidente dell'ordine nazionale dei giornalisti, Enzo Iacopino, che si è costituito parte civile, lo scrittore Carlo Lucarelli, e poi decine di cittadini che dicono no alla mafia in questa regione.

L'udienza ci ha dato la possibilità di vedere in faccia l'imputato che si presenta con il volto di un imprenditore che dice di essere “perseguitato dalla giustizia” e “dai giornali”. Che ha mostrato il suo ghigno, e le sue smorfie, condite da un modo di atteggiarsi arrogante. Femia indossava una polo di colore nera a maniche corte, sbottonata, con il colletto alzato. Era attorniato in aula dall'affetto dei suoi cari: la figlia, il figlio (con polo a maniche corte di colore bianco e colletto alzato anche lui) e il genero, tutti e tre imputati a piede libero in questo processo.

Nicola Femia guardava i tre familiari e sorrideva. Con le braccia incrociate ha seguito la prima parte del processo restando in piedi, fissando il suo sguardo sui giornalisti seduti in prima fila fra il pubblico. Uno sguardo che ben presto ha dovuto abbassare davanti alla “presenza” dei cronisti. E poi si è seduto.

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