Le professioni digitali? «Sono il futuro. Ma vanno regolamentate». A dirlo non è un web-guru fricchettone ma un serissimo 74enne, docente di Scienze dell’organizzazione aziendale alla Sapienza di Roma e presidente della fondazione Irso che di questi temi si occupa: Federico Butera. «I mestieri legati alle tecnologie digitali sono destinati a crescere molto velocemente. Primo: perché stanno aumentando le attività produttive che le richiedono. E secondo perché sempre più consumatori (gli anziani, ad esempio) hanno bisogno di servizi che si appoggiano su queste competenze».
Professor Butera, cosa conosciamo di questi mestieri?
«Pochissimo. Non esistono indagini occupazionali serie. E questo è grave».
Perché?
«Stiamo perdendo un’occasione per rispondere alla disoccupazione»
Si spieghi meglio.
«Questi lavori oggi sono totalmente frammentari, dispersi. Non ha alcun senso dire “Faccio il transmedia manager”, o “Cerco un digital Pr”: questi non sono nomi di professioni, sono descrizioni effimere di attività puntuali. È come se un ospedale cercasse un “Addetto al defibrillatore”. Non avrebbe senso».
Cosa manca?
«Servirebbe un riconoscimento professionale più ampio. Una macro-categoria che permetta di dare a questi lavoratori un’identità».
A che pro?
«Il riconoscimento porterebbe con sé, per i lavoratori, la possibilità di mettere in fila più esperienze, senza ricominciare ogni volta da capo. E quindi ottenere tutele crescenti, una deontologia, delle regole. E per le aziende: avere la stessa flessibilità, senza svalutare il patrimonio umano».
Come potrebbe intervenire il governo?
«Dovrebbe dare strumenti per organizzare, formare e rendere più competitive queste professioni. Farlo significherebbe per l’Italia riuscire ad affrontare una delle cause principali della crisi che stiamo vivendo, ovvero il profondo cambiamento dei processi industriali. Continuare invece a subire impreparati questa rivoluzione, lasciando che aziende e professionisti si arrangino da soli, vuol dire rinunciare a una svolta decisiva per lo sviluppo».