
Non è un fatto esclusivamente italiano, sia ben chiaro, però per la sempre più periferica Piazzetta degli Affari, i dieci debutti del primo semestre sommati alla ventina di società in rampa di lancio sono tanta roba. Soprattutto ricordando che nell’intero triennio 2010-2012 soltanto 25 società si sono affacciate sul mercato azionario tricolore, e la stragrande maggioranza lo ha fatto sull’Aim, (Alternative investment market) il listino dedicato alle piccole e medie imprese.
Dove, spesso, le compravendite languono e la capitalizzazione media di un’azienda - 37,5 milioni di euro - non basterebbe a comprarsi un calciatore neppure troppo “top” come il centravanti spagnolo Diego Costa, appena passato dall’Atletico Madrid al Chelsea (per averlo, la squadra inglese di Roman Abramovich di milioni ne ha sganciati 39).
C’è parecchia attesa per le prime tre in dirittura d’arrivo per il listino principale della Borsa di Milano: Cerved, Fincantieri e Fineco. Comincerà, il 24 giugno, il Cerved, un gruppo specializzato nelle banche-dati e nelle informazioni sulla solidità delle imprese, controllato dal fondo di private equity Cvc, che a sua volta l’aveva rilevato da altri due fondi. Cvc ha deciso di alleggerire la propria partecipazione e anche il debito di 730 milioni che grava sulla società, chiedendo quattrini al mercato. Un debito, peraltro, che era stato contratto dallo stesso Cvc per finanziare in parte l’acquisizione del Cerved.
A uscire parzialmente da Fincantieri è invece lo Stato italiano. Che potrebbe scendere al 55,6 per cento, vendendo azioni per circa 200 milioni di euro e diluendosi in seguito all’aumento di capitale che porterà nelle casse del colosso della cantieristica al massimo 600 milioni. Fincantieri costruisce navi civili e militari: nel 2013 ha consegnato ai clienti 33 imbarcazioni sopra i 40 metri e ha fatturato 3,8 miliardi di euro, con un utile di 85 milioni. L’esordio in Piazza Affari è atteso per il 3 luglio, mentre il giorno prima toccherà a Fineco, la banca multi-canale guidata da Alessandro Foti. L’istituto è stato uno dei primi a puntare sul trading online, diventando famosa ai tempi della Bipop di Bruno Sonzogni, poi rilevata da Capitalia e quindi approdata al gruppo Unicredit. Che la valuta tra 2,1 e 2,6 miliardi di euro e dalla cessione di una quota compresa tra il 30 e il 34,5 per cento incasserà tra i 732 e i 920 milioni.
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Tra le matricole in arrivo ci sono pezzi da novanta dell’economia pubblica, come le Poste, e l’Enav, l’ente che regola il traffico aereo in Italia, imprese private assai note come la Sisal (big di giochi e scommesse, Superenalotto compreso), la Segafredo Zanetti (storica marca di caffè) o la Rottapharm (che produce la Saugella). E non mancano le società possedute dalle amministrazioni enti locali, tipo l’Aeroporto di Bologna.
Non è la carica dei Seicento ma a scaldare i motori sono davvero in tanti. Se tutte le aspiranti finiranno davvero sul listino, significa che avranno mosso una decina di miliardi di euro di investimenti.
VA DI MODA IL “BUY ITALY”
È vero che molti commentatori e capi di banche d’affari internazionali non lesinano raccomandazioni del tipo “Buy Italy”, ovvero a «comprare Italia» (e non si riferiscono ai raffinati abiti o all’elegante design), ma dieci miliardi non sono noccioline. E in tanti cominciano a chiedersi quante della candidate ce la faranno davvero. Se lo domanda addirittura il quotidiano della Confindustria, “Il Sole 24 ore”, che sotto il titolo “Ma è tutto oro quel che luccica?”, argomenta così le perplessità condivise pure da parecchi operatori: «Gli azionisti di queste matricole hanno provato negli ultimi anni a cedere una quota di minoranza a fondi di private equity, senza riuscirci. Ora, perché dovrebbe essere il mercato a dare, in modo generalizzato, a tutte queste aziende quanto gli investitori professionali non hanno concesso?».
Preoccupazioni di questo genere sono abbastanza diffuse. «Che arrivino nuove società è sicuramente positivo. Decisamente negativa, però, è la tendenza a quotarle al massimo valore possibile. Anni fa i collocamenti avvenivano, in gran parte, a un prezzo sensibilmente inferiore al valore attribuibile alla società. Persino un importante marchio del lusso come Bulgari, quando si quotò, lo fece con uno sconto del 20 per cento sul valore teorico», sottolinea Luca Riboldi, direttore investimenti di Banor Sim, società specializzata nel gestire grandi patrimoni di clienti privati e istituzionali.
«Oggi chi vende ambisce a portarsi a casa il valore pieno, e ciò rende meno interessante per l’investitore andare a conoscere le società che vengono messe in vendita», sostiene il manager di Banor. Il meccanismo che non piace a Riboldi, e non solo a lui, è piuttosto semplice. Le istituzioni che di mestiere “accompagnano” le aziende alla quotazione - dalle banche d’affari internazionali dai nomi altisonanti ai piccoli studi che si contendono le mini-aziende - per catturare l’incarico spingono gli azionisti a valutare al massimo il titolo. E gli azionisti, naturalmente, sono felici di incassare il più possibile. Specie quando una società crea il flottante soltanto attraverso la cessione di quote da parte dei soci, l’attenzione al prezzo, da parte del risparmiatore-investitore, dev’essere massima. Se un’azienda è redditizia e non ha bisogna di rastrellare quattrini da investire, perché mai un “padrone” dovrebbe privarsi di una gallina dalle uova d’oro condividendola con il mercato?
SCOTTATI DA BRUCE CHATWIN
Dando un’occhiata allo specchietto retrovisore per vedere come sono andate le quotazioni più recenti, in effetti le delusioni abbondano. Il flop più eclatante sul listino principale è quello della Moleskine, l’azienda dei celebri taccuini di Bruce Chatwin. Le sue azioni, collocate a 2,3 euro nell’aprile 2013, ora valgono il 45 per cento in meno. Piazzata con grande battage alla stregua di una società del lusso, alla prima chiusura di bilancio da quotata Moleskine ha visto frenare l’utile e diminuire l’appeal presso gli investitori.
Tra le fresche debuttanti, un caso a parte è quello di Anima, società di gestione di fondi. Per la quale più che un debutto si è trattato di un ritorno: quando faceva capo al Banco di Desio, Anima in Borsa c’era già stata, tra il 2005 e il 2009. Un’esperienza amara, soprattutto per i piccoli azionisti: collocata a 3,3 per azione, venne ritirata attraverso un’Opa (l’offerta pubblica di acquisto) lanciata dalla Banca Popolare di Milano ad appena 1,45 euro. Dopo un tourbillon di aggregazioni, la società si è ripresentata in Piazza Affari il 16 aprile, con l’obiettivo di favorire il parziale disimpegno dei grandi azionisti come la Bpm stessa, il Monte dei Paschi di Siena e il fondo di private equity Clessidra di Claudio Sposito (che uscirà pure dalla Sisal, la cui quotazione è attesa in estate). Il primo giorno di scuola da ripetente è stato da incubo: il titolo, in avvio, ha perso il 6,8 per cento. Poi si è ripigliato, ha chiuso sotto del 3,6 per cento, per poi riportarsi sopra il prezzo di collocamento.
«L’arrivo di diverse nuove società sul listino è positivo perché aumentano le opportunità di investimento. Però non tutte le matricole sono buone imprese. Su dieci collocamenti, io trovo in genere una o due opportunità da cogliere», racconta Alberto Chiandetti, gestore del fondo FF Italy del gigante americano Fidelity. Anche per Stefano Bellavita di Eidos Partners, società indipendente di consulenza finanziaria, dopo l’euforia si apre la fase della selettività. «È già successo in America e in Inghilterra ed è possibile che accada anche in Italia nei prossimi mesi. I flussi in arrivo dall’estero ci sono ma gli investimenti americani nelle azioni europee adesso viaggiano al ritmo di un miliardo di dollari al mese, mentre verso la fine dell’anno scorso il ritmo era di dieci miliardi al mese».
COME TIRA LAPO
Delle ventiquattro società approdate all’Aim nel 2013 e nella prima parte di quest’anno, soltanto cinque, sulla base dei prezzi del 16 giugno, valgono più del prezzo a cui sono state collocate. Una di queste è la Italia Independent di Lapo Elkann, mediaticamente parlando la vera superstar della Borsina. Piazzata a 26 euro, è salita a 33,5, un bel balzo del 28,8 per cento. Buoni anche i risultati sul campo: con gli occhiali, la comunicazione e le trovate come il frigorifero Smeg costruito impiegando la scocca di una vecchia Fiat 500, la società presieduta da Lapo l’anno scorso ha fatturato 24,9 milioni (più 59 per cento), guadagnando una mezza milionata netta. E nei primi tre mesi del 2014 i ricavi hanno mantenuto lo stesso, incalzante ritmo di crescita.
Un’altra sufficienza, in termini di performance, tra le ragazzotte dell’Aim la porta a casa Expert System, italianissima azienda di software che punta sull’analisi semantica, «per comprendere con grande velocità e precisione qualunque tipo di testo», dice il sito. A quattro mesi dallo sbarco in Borsa, il titolo della società di Rovereto, Trento, è salito del 10,3 per cento, anche se nel 2013 il giro d’affari e l’utile netto sono calati. Sulle pagelle dell’Aim - dove la maggior parte delle imprese ha effettuato il collocamento, rivolgendosi esclusivamente agli investitori istituzionali - fioccano le insufficienze.
Da pochi mesi sul mercato ma già ben sotto il prezzo di collocamento ci sono per esempio Ecosuntek, rinculata del 20,5 per cento, e Agronomia, arretrata del 10,1. Due società “diversamente verdi”: la prima realizza impianti fotovoltaici ed eolici da sistemare su case e terreni; la seconda produce e commercializza insalate pre-lavate, imbustate e pronte all’uso. Male pure il Gruppo Green Power, quotato da gennaio, la cui azione è scesa dell’8,7 per cento dal prezzo di collocamento. Gli azionisti più importanti della società - che si occupa di fotovoltaico - sono i fratelli Christian e David Barzazi, sono anche i patron di un’altra azienda (Energia Green Power), in cui ha investito l’anno scorso 10 mila euro, con la moglie, l’ex-governatore del Veneto Giancarlo Galan, coinvolto nell’inchiesta per le tangenti del Mose.
Un po’ di politica, tra le società dell’Aim, c’è pure nel Ki Group, società del gruppo Bioera, di cui è azionista Daniela Santanché, la pitonessa di Forza Italia. Il Ki Group, che distribuisce prodotti biologici e biodinamici, ha esordito in Borsa nel novembre scorso. Rispetto al collocamento, ha lasciato sul terreno il 36,9 per cento. Peggio ancora ha fatto la Sacom di Larino, Campobasso, un’altra azienda dell’Aim dal cuore verde. Produce fertilizzanti a basso impatto e sviluppa micro-organismi per ridurre l’uso di pesticidi nella cura delle piante. Per ora, la Borsa delle Pmi non l’ha affatto premiata, visto che dall’esordio dell’aprile 2013 la sua quotazione è scesa del 61 per cento rispetto a quanto l’avevano pagata gli investitori nell’ambito del collocamento.
BELLE DA QUOTAZIONE
Il florilegio di tristi performance non scoraggia l’esercito delle aspiranti quotate. Una delle matricole è la Notorious Pictures che di mestiere acquisisce i diritti delle opere cinematografiche per distribuirle su vari canali, dal cinema all’home video passando per i “new media”. Nel suo portafoglio titoli, per esempio, ci sono film come “La Bella e la Bestia” o “Belle & Sebastien”, grande successo dello scorso inverno. A proposito di cinema e animali. Speriamo che, in Borsa, la Bestia delle favole porti più fortuna di quanta ne abbia portato il “Lupo di Wall Street” al Leone Film Group. La società dei figli del mitico regista Sergio Leone, quotata all’Aim dal 13 dicembre, ha perso l’8,5 per cento dal prezzo di collocamento.