Mandano in tilt le attività produttive sulla costa, resistono all'inquinamente, spazzano via le altre specie. E attaccano i bagnanti. Ecco perché le jelly fish infestano le acque

Le chiamano “fioriture”, ma somigliano più a un’inaspettata infestazione di ortiche. Si manifesta così l’improvvisa comparsa di milioni di esemplari di meduse che invadono i nostri mari, e non solo. Ce ne accorgiamo quando facciamo il bagno, ma il fatto è che danneggiano enormemente anche l’economia: dalla pesca alle attività industriali: possono intasare gli impianti che utilizzano l’acqua di mare nei loro sistemi di raffreddamento, costringendo allo stop centrali idroelettriche, impianti a carbone, fabbriche e persino centrali atomiche; come è accaduto in due impianti nucleari, in Svezia e in Scozia, e di una centrale elettrica israeliana.

In tilt soprattutto gli impianti di piscicoltura con gravi effetti sull’economia. Come si è visto a più riprese lungo le coste dell’isola di Man, al largo dell’Inghilterra, colpite da un autentico cataclisma. Nel 2007 per la prima volta: in tre giorni sono morti oltre 120 mila salmoni, provocando un danno economico complessivo che ha superato il milione e mezzo di sterline. Colpa di un’invasione di Pelagia noctiluca, una specie di medusa urticante estremamente diffusa nel Mediterraneo, e, col riscaldamento delle acque, divenuta ormai una presenza fissa anche lungo le coste del Mare d’Irlanda e dell’Oceano Atlantico. L’invasione si è ripetuta nuovamente nel 2013, uccidendo questa volta circa 20 mila esemplari negli impianti della Marine Harvest, società norvegese che alleva salmoni a largo delle coste dell’isola irlandese di Clare. Poi ancora meduse devastanti lungo le coste di Tunisia, Spagna, Normandia, Catalogna, Norvegia e Cile.

«È un fenomeno sottostimato e ancora poco studiato. Molti allevatori non comprendono i rischi, e spesso non riconoscono quando una determinata moria di pesci è causata dalla presenza di meduse», spiega Stefano Piraino, esperto di invertebrati marini dell’Università del Salento e coordinatore di MED- Jellyrisk, un progetto di ricerca europeo che studia l’impatto della proliferazione di meduse nelle acque del Mediterraneo: «Stiamo cercando di calcolare la reale entità del problema, in particolare nelle acque del Mediterraneo, dove è meno conosciuto. Sarebbe importante riuscire a stimare i danni non solo per quanto riguarda la mortalità dei pesci, ma anche rispetto alle perdite dovute alla scomparsa di altri animali marini conseguente all’invasione delle meduse».

Perché se gli allevamenti di pesci sono a rischio, una battaglia ancor più cruenta si combatte in mare aperto. «I banchi di meduse possono ingolfare i motori delle barche, e si ammassano nelle reti, riducendo il pescato e rendendo difficile la selezione del pesce», racconta Ettore Lanì, Presidente di Lega Pesca, associazione che riunisce le cooperative italiane: «Anche nei nostri mari sono un problema grave, che influisce fortemente sulla produttività e la redditività della pesca».

Eppure gli esperti incolpano proprio i pescatori di quanto sta accadendo. Se ci chiediamo, infatti, la ragione del mare pieno di gelatine utricanti ci sentiamo rispondere che sì, è colpa del riscaldamento globale. Ma non solo. Una buona fetta di responsabilità ce l’ha anche la pesca intensiva.

Ma cominciamo dall’inquinamento. Perché gli esperti spiegano che non si può dare una ragione del fenomeno senza inserirlo nel più generale quadro di stravolgimenti dovuti al riscaldamento globale che stanno interessando gli ecosistemi marini di tutto il mondo. «Ormai nelle nostre acque vediamo continuamente pesci palla, pesci balestra, pesci pappagallo e anche barracuda, specie che un tempo erano sconosciute nelle acque del Mediterraneo», spiega Lanì. Ma non è tutto.

In questi mari al centro di una grande rivoluzione ecologica accade che molti pesci di interesse commerciale si nutrono delle stesse risorse alimentari che ingrassano le meduse, e sfruttando eccessivamente gli stock ittici per decenni abbiamo viziato la competizione assicurando approvvigionamenti costanti e abbondanti alle meduse.

Che sono spietati predatori, e si nutrono degli stadi giovanili dei loro rivali, contribuendo a loro volta ad accentuare gli effetti dell’overfishing. Una recente ricerca svolta nei mari europei ha scoperto nello stomaco di una medusa di 4 centimetri, dunque relativamente piccola, oltre 40 larve di acciuga. Se moltiplichiamo il numero per le migliaia di esemplari che possono apparire in un’annata particolarmente favorevole, abbiamo un’idea della devastazione che possono arrecare agli stock ittici.

Le meduse sono inoltre organismi semplici, che resistono bene agli effetti dell’inquinamento, all’acidificazione degli oceani, e all’aumento delle temperature. Certamente molto meglio di organismi più complessi, come i pesci. Il risultato è che spesso quando in un determinato ecosistema marino si assiste a una diminuzione della biodiversità, aumentano al contempo gli esemplari di meduse. Negli anni ‘60, ad esempio, a largo delle coste della Namibia nuotavano circa 10 milioni di tonnellate di sardine e acciughe. Un patrimonio ittico che negli anni è andato sparendo a causa della pesca eccessiva, e che al suo posto ha lasciato oggi circa 12 milioni di tonnellate.

L’allarme meduse oggi è emergenza: per le attività produttive e per gli ecosistemi marini. Ma gli animali gelatinosi - di grande bellezza bisogna ammettere - sono lì da sempre. «Ne abbiamo testimonianze persino nella Bibbia», racconta Stefano Piraino: «Ma in questi anni il fenomeno si è fatto più frequente in tutto il mondo. Pensate che in Giappone fioriscono meduse giganti, chiamate nomura, che invadono i mari ogni due-tre anni». Quelle che infestano le acque giapponesi sono tra le specie più grandi al mondo: superano facilmente i due metri di diametro e i 200 chili di peso, e ammassandosi nelle reti possono arrivare ad affondare un peschereccio da 10 tonnellate. Ma non servono meduse da record per provocare enormi danni alle attività umane.