I campioni prelevati e analizzati dall'associazione ambientalista sono a dir poco preoccupanti senza eccezioni, dalla Liguria alla Sicilia. Principali imputati i depuratori assenti o non idonei e comportamenti criminali come lo sversamento di rifiuti industriali
A leggere il rapporto sulla qualità delle acque di balneazione stilato, come ogni anno, dal ministero della Salute, non ci sarebbe di che preoccuparsi. Si evidenzia, addirittura, un aumento delle acque di qualità eccellenti in Italia, con una percentuale pari all’87,2% sul totale delle acque di balneazione italiane, rispetto all’85,1% dell’anno precedente. Insomma, come si legge nel rapporto, “l’Italia è uno dei paesi europei con un più elevato livello di tutela sanitaria in questo settore”.
Un risultato di tutto rispetto se consideriamo che il nostro è il Paese europeo con il maggior numero di acque di balneazione tra marine (4.880) e interne (629), per un totale di 5.511 siti. Un quarto del totale di quelle europee. Peccato, però, che i dati pubblicati dal ministero, pur essendo lodevoli, non sembrino poi così attendibili. Non fosse altro per un motivo: il rapporto, pubblicato a stagione estiva ormai nel vivo, descrive una realtà riferita alle analisi condotte nel 2013. E, com’è facilmente immaginabile quando si parla di inquinamento delle acque, nel giro di un anno può cambiare davvero tutto.
Perlomeno questo viene da pensare confrontando il quadro che emerge dalla relazione ministeriale con quanto sta venendo alla luce dalle analisi condotte in questi giorni da
Legambiente nell’ambito della campagna “
Goletta Verde”. Certo, qui parliamo di esami condotti su un campionamento di siti. Eppure le analisi dovrebbero mettere tutti in allerta. Per questioni ambientali. Ma anche per ragioni economiche.
Il viaggio di Goletta VerdeCominciamo dai dati. Come spiega la portavoce di Goletta Verde,
Serena Carpentieri, i prelievi e le analisi vengono eseguiti dal laboratorio mobile di Legambiente. I parametri indagati sono microbiologici (enterococchi intestinali, escherichia coli) e vengono determinati come “inquinati” i risultati che superano i valori limite previsti dalla normativa sulle acque di balneazione vigente in Italia (Dlgs 116/2008 e decreto attuativo del 30 marzo 2010) e “fortemente inquinati” quelli che superano più del doppio tali valori.
“Quando quei batteri si trovano nell’acqua – precisa Carpentieri – significa che c’è un inquinamento di tipo biologico causato da insufficiente depurazione”. L’obiettivo, d’altronde, è proprio questo, andare a scovare situazioni critiche: “Difficilmente andiamo a campionare tratti di mare che non sono interessati da scarichi, foci di fiumi e quant’altro. Su segnalazione dei cittadini e con l’aiuto dei nostri circoli locali andiamo a campionare siti che sono interessati da canali e fiumi”. Ebbene, da Nord a Sud Legambiente presenta e illustra una realtà impressionante.
Il viaggio di Goletta Verde è partito dalla
Liguria dove, sui 23 campionamenti effettuati lungo i 345 chilometri di costa, nel 40% dei casi sono stati rinvenuti valori di inquinanti ben oltre i limiti consentiti. Dei sei prelievi in provincia di Genova, tre sono risultati “fortemente inquinanti”, così come anche a Imperia e a La Spezia. Tutta colpa, dicono da Legambiente, di “acque avvelenate da scarichi non depurati adeguatamente che evidentemente provengono anche dalle aree interne e attraverso i fiumi si immettono a mare”.
E la situazione non si presenta poi tanto diversa scendendo giù lungo la
costa tirrenica. Anzi, se si vuole peggiora. E così, nonostante in
Toscana si riscontrino dati tutto sommato positivi con “solo” sei casi che hanno fatto registrare valori oltre il consentito su un totale di 18 prelievi effettuati, bisogna anche qui entrare nel merito.
Facendo un raffronto con il
Portale delle Acque del Ministero della Salute, infatti, scopriamo che due dei sei punti inquinati (Foce torrente Carrione a Grosseto, Marina e Moletto del Pesce di Marciana Marina, in provincia di Livorno) non sono per nulla campionati dalle autorità competenti; le restanti quattro invece risultano balneabili.
Addirittura, denuncia l’associazione, due punti dell’
isola d’Elba risultati inquinati, nel portale istituzionale godono di un profilo “eccellente”. C’è qualcosa che non torna. Ma anche questo, purtroppo, non deve sorprendere. Come ci spiega Serena Carpentieri, infatti, “molti tratti di mare interessati da Goletta Verde non ricadono in acque di balneazione per il ministero e quindi sono stati propri esclusi dai campionamenti. In pratica, viene dato per scontato che sono tratti inquinati e tali devono rimanere dato che non vengono monitorati”. Siamo al paradosso.
Roma, capitale (anche) dell’inquinamentoDati davvero preoccupanti arrivano anche dal
Lazio dove, su un totale di 24 campionamenti, ben 18 (il 75%) presentano una incredibile concentrazione di inquinamento microbiologico. Basti questo: in 13 casi il giudizio è addirittura “fortemente inquinato”. Bollino rosso soprattutto per quanto riguarda la
provincia di Roma: in quasi la totalità dei prelievi (in 12 casi su 13) sono stati registrati livelli ben al di sopra del consentito. Non solo. Secondo quanto denunciato dal COOU (Consorzio Obbligatorio degli Oli Usati) che sta conducendo le analisi con Legambiente, una vera e propria piaga per il Lazio è costituita dallo
sversamento di oli usati. I dati registrati nell’ultimo rapporto (relativo al 2013) sono impressionanti: solo in questa regione sono stati raccolti 10.252 tonnellate di olio usato, di cui 6.548 nella provincia di Roma.
Puglia, Campania, Sicilia: situazioni critiche al SudAl peggio, però, non c'è fine. E allora, per raschiare davvero il fondo del barile, bisogna aspettare di leggere i dati relativi a
Campania, Calabria e Sicilia. Dei 31 punti monitorati in Campania, ben 21 sono risultati inquinati e, di questi, 10 campionamenti riguardano la sola provincia di Napoli. Numeri, d’altronde, che non sorprendono: anche le ultime stime ufficiali (relative al 2012) dell’Arpac parlano di una regione con una quota di depuratori non conformi superiore al 50%.
E, come nel Lazio, anche in Campania la responsabilità sarebbe imputabile agli oli usati non eliminati in modo corretto. Secondo la denuncia di Antonio Mastrostefano, direttore della Comunicazione del COOU, “se eliminato in modo scorretto questo rifiuto pericoloso può danneggiare l’ambiente in modo gravissimo: 4 chili di olio usato, il cambio di un’auto, se versati in mare inquinano una superficie grande come sei piscine olimpiche”. Basti pensare che lo scorso anno sono stati quasi 14mila le tonnellate di olio usato recuperato dal COOU. Di questi quasi 9mila nella provincia napoletana.
E allora non sarebbe affatto un caso che, dopo ben due
condanne dell’Unione Europea per il mancato trattamento delle acque reflue, sia arrivata, proprio all’inizio della stagione estiva, l’apertura di una terza procedura d’infrazione e che questa coinvolga ben 115 comuni campani (su un totale di poco meno di 900), classificando la Campania tra le regioni peggiori d’Italia.
Numeri, questi, che fanno eco a quelli
pugliesi: su un totale di 187 depuratori, 12 impianti continuano a scaricare nel sottosuolo nonostante questa sia una pratica vietata dalla legge (non a caso due sono stati da poco dismessi), 39 depuratori (dati Arpa Puglia 2013) non sarebbero affatto a norma, 33 sarebbero sotto sequestro per procedimenti penali e 37 sarebbero coinvolti dalla procedura UE. Una realtà incredibile che, dallo screening effettuato, evidenzia pesanti anomalie soprattutto nel tarantino e nel brindisino: i dati di Goletta Verde parlano di 5 punti “fortemente inquinati” su 10 campionamenti effettuati nelle due province.
Ci sono regioni, poi, dove i problemi depurativi vanno avanti da anni. È il caso della
Sicilia. Dalle analisi di Goletta Verde emerge che oltre il 60% dei punti monitorati lungo le coste non supera l’esame: su 26 prelievi totali, 16 casi hanno restituito un giudizio negativo. C’è da sorprendersi? Probabilmente no, dato che si registrava una situazione profondamente critica già nel 2008 quando l’Istat realizzò il suo ultimo rapporto sui livelli di depurazione e la Sicilia si classificava come peggiore regione italiana, registrando solo un 47% di adeguata copertura. Non sorprende, pertanto, che nella nuova procedura d’infrazione siano addirittura 175 i comuni siciliani attenzionati. Si dirà: ma negli anni non è stato fatto niente? Come vedremo, no. Nonostante i lauti stanziamenti messi a disposizione.
In Calabria l’inquinamento è la regolaÈ inizio luglio quando la procura di
Vibo Valentia, guidata da Mario Spagnuolo, denuncia trenta sindaci tutti del vibonese per
scarico abusivo, al termine di un’indagine a tappeto condotta dalla Capitaneria di Porto di Vibo Marina che ha messo sotto osservazione gli impianti di depurazione del territorio provinciale. Dai controlli, infatti, sarebbe emersa una situazione disastrosa: secondo quanto denunciato dalle autorità, il servizio di depurazione nel vibonese coprirebbe solo il 40% della popolazione, i reflui del 60% degli abitanti scorrerebbe a mare o in fossi e torrenti, su 50 comuni della provincia di Vibo ben 17 non sarebbero dotati di impianti e gran parte dei tronchi fognari scaricherebbero le proprie acque, senza alcun tipo di trattamento, nei corsi d'acqua che arrivano a mare.
Insomma, un disastro. Così come lo è stata un’altra vicenda, anche questa denunciata dalla procura di Vibo, sull’indotto dell’
Alaco, il lago artificiale che, tra la provincia vibonese e quella catanzarese, rifornisce d’acqua circa 400 mila abitanti: tra tecnici, funzionari regionali e amministratori locali (tra cui anche i due sindaci dei capoluoghi) sono 36 le persone coinvolte nei confronti dei quali si contesta, tra le altre cose, anche l’avvelenamento colposo delle acque.
Una realtà incredibile, dunque, quella calabrese. E i dati di Legambiente non fanno che confermarlo: addirittura nell’80% dei casi campionati (19 su 24) sono state registrate cariche batteriche almeno due volte più alte di quelle consentite dalla legge, con un giudizio di “fortemente inquinato”. E non è solo Legambiente a denunciare questa situazione, visto che nella nuova procedura di infrazione europea sul trattamento dei reflui urbani sono 129 i comuni calabresi in cui vengono segnalate “anomalie” sulla depurazione.
Oltre al danno ambientale, quello economico. Tra sentenze UE e finanziamenti mai utilizzatiIl quadro che emerge, dunque, è spaventoso. E non solo per questioni ambientali, ma anche per ragioni economiche. La direttiva europea sulle acque reflue è del 21 maggio 1991: sono dunque quasi 25 anni che l’Italia resta inadempiente e colleziona sanzioni comunitarie, nonostante la direttiva sia stata recepita nel ‘99. E così, a conferma del grave deficit del sistema depurativo, è arrivata solo pochi mesi fa la terza procedura d’infrazione, relativa a 41 agglomerati urbani per un totale di circa 900 comuni sparsi in ben 12 regioni italiane.
Gravissime le
conclusioni a cui giunge la Commissione e riportate nella comunicazione del 31 marzo: “la Commissione ritiene che l’Italia sia venuta meno agli obblighi incombenti (...) della Direttiva 91/271/CEE in un numero consistente di agglomerati, alcuni dei quali molto grandi (Roma, Firenze, Napoli, Bari, Pisa, ecc.) e alcuni dei quali scaricano in aree sensibili”. E ancora: “l’Italia è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti della Direttiva in cinquantacinque aree sensibili”.
Conclusioni che ribadiscono quanto già detto nelle
due sentenze di condanna già inflitte: una, arrivata a luglio 2012 (e aperta nel 2004), riguardante oltre 100 agglomerati; la seconda (aperta nel 2009) la cui sentenza è arrivata il 10 aprile 2014 e riguardante decine di agglomerati, dalla Sicilia alla Lombardia, con più di 10mila abitanti equivalenti che scaricano in aree sensibili.
“Ben presto – dice Carpentieri – arriveranno anche delle multe in seguito alle condanne. Bisognerà vedere se negli agglomerati sia stata messa in atto una programmazione tale da poter evitare sanzioni pecuniarie”. Sanzioni che potrebbero essere decisamente pesanti. Secondo una ricognizione della Confservizi Piemonte si parlerebbe di una condanna che andrebbe da un minimo di 11.904 euro a un massimo di 714.240 euro per ogni giorno di ritardo nell’adeguamento a decorrere dalla pronuncia della sentenza, che si aggiungerebbero a una somma forfetaria che per l’Italia corrisponde ad un minimo di 8 milioni 863 mila euro. Ancora più drastico è stato il gruppo Hera (società che gestisce il servizio idrico in Emilia Romagna) che addirittura ha parlato di sanzioni che in totale potrebbero arrivare a 700 milioni di euro.
Bisognerebbe
correre ai ripari, dunque. E il prima possibile. Peccato, però che poco si stia facendo. Nonostante – paradosso dei paradossi – i finanziamenti ci siano. Clamorosi i casi, tra gli altri, di Sicilia e Calabria. Secondo quanto
denunciato dalla deputata M5S Dalila Nesci in un’interrogazione depositata in questi giorni, dal 2000 al 2012 la regione calabrese ha beneficiato tra fondi CIPE, europei e ministeriali di 717 milioni di euro proprio per completare, adeguare e ripristinare il sistema fognario.
A vedere i risultati, però, sembrerebbe proprio che poco sia stato fatto, tanto che la parlamentare ha chiesto conto di tali finanziamenti e dei progetti portati a termine. Situazione analoga anche in Sicilia. Secondo la denuncia di Legambiente il miliardo e 161 milioni di euro messi a disposizione per la regione dal Fondo di Sviluppo e Coesione per realizzare fogne e depuratori rischia ora di tornare a Bruxelles. Il motivo è tragicomico: quasi nessuno ha utilizzato questi fondi. “Finora – denuncia ancora Carpentieri - le risorse utilizzate ammontano ad appena 65 milioni”. Il resto è rimasto incredibilmente in cassa.
Vedremo cosa succederà d’ora in avanti considerando che con la legge di stabilità 2014 è stato istituito un fondo apposito finalizzato a potenziare la rete depurativa per i reflui urbani. La dotazione complessiva per il prossimo triennio è di 90 milioni di euro (10 per quest’anno, 30 per il 2015 e 50 per il 2016).
Le responsabilità del disastroDifficile, davanti ad un quadro così desolante, rintracciare singole responsabilità. Certamente gli enti locali hanno la loro bella fetta di colpa dato che “sono i primi chiamati in causa soprattutto in riferimento alle progettualità da avviare. È una materia che tocca tanti enti che dovrebbero riunirsi attorno ad un tavolo per pianificare il lavoro. Questa dinamica però – continua la portavoce di Legambiente – spesso fallisce e il risultato è che ogni estate ci troviamo a dover commentare dati di questo genere e ad assistere a sequestri di depuratori e a malfunzionamenti di vario genere. Ci sono situazioni che vanno avanti da decenni e non si vede all’orizzonte una soluzione”.
Alla
negligenza e incuria delle singole amministrazioni locali, si affiancano anche
responsabilità ministeriali. Quello che verrebbe da pensare, infatti, è che mancano i dovuti controlli. E, quando ci sono, arrivano in spaventoso ritardo. Non solo infatti il rapporto presentato pochi giorni fa dal ministero della Salute si riferisce, come detto, ad analisi del 2013.
C’è anche dell’altro. Il 9 luglio scorso, infatti, si è riunita la “Struttura di missione contro il dissesto idrogeologico e per lo sviluppo delle infrastrutture idriche” messa in piedi direttamente della Presidenza del Consiglio dei ministri e in cui ritroviamo tecnici ministeriali, della protezione civile e delle varie amministrazioni locali. Ebbene, in quella data si è deciso di avviare – finalmente – la programmazione di interventi in materia di depurazione e trattamento delle acque reflue. Bene. Ma da quando? Da settembre 2014. Insomma, a stagione estiva e turistica conclusa. D’altronde è tempo di vacanze. Meglio farsi un bagno in mare. Inquinato.