Il suo italiano non è mai scorretto. Anche se efficace e disinvolto. La sua capacità di persuasione è riconosciuta. Da tutti. L’arco temporale è sempre presente. Ecco come parla il premier

Cosa ci sta dicendo Matteo Renzi? Non è una questione da poco perché se vi è una certezza è che l’attuale premier e segretario del Pd parla. Innanzitutto parla, alla Nazione, ai propri sostenitori e ai sostenitori della parte avversa, e parlare è cosa che a lui riesce facilissima. È un «comunicatore», e anche uno dei primi comunicatori, in Italia, a usare un italiano non scorretto, anche se efficace e disinvolto. Mentre il valore della sua azione politica, governativa e diplomatica è sotto il vaglio degli analisti, e i successi non sembrano indiscutibili, la sua capacità di persuasione viene riconosciuta da chiunque, ivi compreso il suo principale avversario e i suoi più stretti parenti.
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Uno dei suoi primi libri si intitolava “A viso aperto” (Polistampa, 2008). Un titolo che è un programma, o almeno l’esibizione di un’intenzione comunicativa, o anche una profezia capace di avverarsi da sé. Vi parlerò a viso aperto, o almeno avrò l’aria di farlo. Dirò le cose come stanno, non mi nasconderò dietro alle pietose perifrasi dei politici di prima. La cifra comunicativa di Renzi alla fine è molto semplice e sinora si è tutta annidata nell’idea di novità che, declinata nella spettacolare metafora della rottamazione, ha dato a Renzi la maggiore carica propulsiva. Ora, dato che new things get old, avrà bisogno d’altro. Cercherà altre parole: già il suo ultimo libro si intitola “Oltre la rottamazione” (Mondadori, 2013), a indicare un superamento, se non un accanimento.

L’arco temporale è sempre presente nel discorso di Renzi. C’è un prima e un dopo, un vecchio e un nuovo, una spinta e una resistenza, oggi rappresentata figurativamente da gufi e frenatori e da chi dice no. Lo slogan della sua campagna per diventare sindaco era: “È primavera, Firenze”. Primavera. L’antico (Botticelli) e lo storico (Palazzo Vecchio, il Ponte Vecchio) vanno benissimo: non lo stantio, il cupo, l’invernale. Dell’epoca è anche lo slogan “O cambio Firenze o cambio mestiere”, che corrisponde a una regola del game show (Mike Bongiorno è uno dei più solidi numi renziani): si rischia tutto, se non si raddoppia si lascia. La prima assemblea alla Leopolda (novembre 2010), con Pippo Civati e Debora Serracchiani, aveva come titolo “Prossima fermata, Italia”. Un titolo che nella sua arguzia ferroviaria assomiglia più a Civati che a Renzi. Il quale proprio da quel palco lasciò liberare un po’ di quella insolenza che è dispiaciuta a molti politici affermati ma gli ha conquistato simpatie nella platea più lontana dal tradizionale atteggiamento compassato e senza spigoli del suo partito, e del suo primo leader, Walter Veltroni. Datano ad allora la «rottamazione», e più puntutamente l’epiteto di “vicedisastro” attribuito con perfidia tipicamente made in Rignano sull’Arno all’allora vicesegretario del Pd Dario Franceschini (oggi ministro culturale e sostenitore dello stesso Renzi: todo cambia).

Da qui in poi la strategia di Renzi si è sdoppiata fra la più carezzevole comunicazione rivolta all’elettorato generico (una convention di amministratori intitolata, enigmisticamente: “Italia: obiettivo Comune” e una, assai più aggressiva, rivolta all’elettorato più politicizzato, per preoccupare l’establishment e galvanizzare gli scontenti, che è la vera maggioranza non tanto silenziosa italiana. A questi scopi corrispondono uscite come il libro intitolato Fuori! e la riunione alla Leopolda intitolata Big Bang. Inizio, ma anche esplosione. Anche l’insolenza di rispondere “Chi?” al giornalista che riferisce obiezioni (sul modello del «Michele chi?» opposto dall’allora presidente Rai a Michele Santoro) ha funzionato molto, specie a riguardo di Stefano Fassina, sia nel 2012 sia nel 2014. Sono i modi con cui uno che comanda dichiara, ammette, enuncia che comanda.

A quanto pare, Fassina ha capito e abbozzato. Intanto arrivavano formule più accomodanti: un richiamo a una classicità superata persino da Dante Alighieri, nel titolo del libro “Stil novo” (2012); lo slogan “Viva l’Italia viva”, ad allargare lo zoom su quanto possa stare a cuore a chiunque, senza distinzioni di parte. E qui sta la scaltrezza del rivolgersi sempre all’altra platea, quella più larga, quella che ti ascolta dai telegiornali, dallo streaming, dal rimbalzo mediale.

Questa è la mossa che ha fatto di Renzi un leader sovra-partitico. Raramente usa termini che non siano nella disponibilità immediata di qualsiasi parlante italiano. Raramente, lui che è segretario di partito, usa il “noi” in senso ideologico e di appartenenza; di norma lo usa contro un “loro” che è la classe politica, un loro quasi leghista o berlusconiano. Oggi Matteo Renzi è al potere. Gestisce un potere tanto fragile (la sua maggioranze è imponente, ma continuamente erosa da dissidenze) quanto vigoroso (è sostenuto da mass-media, senso comune, anche oppositori). Ogni tanto gli scappa di dire che può “asfaltare” le temerarie opposizioni. Ricorrendo al lessico delle tifoserie calcistiche, definisce «gufi» coloro che non prevedono buoni esiti ai suoi progetti di riforma. Ha coscienza dell’immaginario pop, e afferma che dopo di lui «non c’è il diluvio, ma il mago Otelma» e che «non sono mica Goldrake». Il suo iperpopulismo si esprime nella dichiarazione: «I sondaggi non si leggono, si cambiano». Ma certamemte, come tutti i suoi più avvertiti e ambiziosi predecessori, per cambiarli li legge.