Giancarlo De Cataldo, magistrato e autore di 'Romanzo criminale', ci parla della biografia che Corrado de Rosa ha dedicato al criminologo. Un cattivo maestro che ha attraversato tutta la stagione delle trame: dalla morte di Pasolini alla strage di Bologna

La vita di Aldo Semerari è un romanzo nero che culmina il 1° aprile 1982 nell’atroce ritrovamento del cadavere decollato dell’illustre e controverso criminologo in territorio di Ottaviano, il feudo di Raffaele Cutolo, l’ormai declinante capo della Nuova Camorra Organizzata. Che, però, di questo delitto è innocente, vista la (tardiva) confessione del boss Umberto Ammaturo, certo non un amico né un alleato, ma anzi un rivale,  di Cutolo.

Corrado De Rosa, psichiatra che si definisce, con eccessiva modestia, “scrittore occasionale”, ha dedicato a Semerari una vasta e documentata narrazione (La mente nera, edizioni Sperling & Kupfer) che ripercorre le tappe cruciali di un’esistenza tanto enigmatica quanto segnata da un’ossessiva ricerca dell’eccesso. Non fosse per il finale tragico, verbbe da definirla una vita “letteraria”: Semerari come il dottor Teleborian, lo psichiatra al soldo dei servizi segreti che rovina la vita alla giovane Lisbeth Salander nella “Trilogia” di Stieg Larsson. Ma qui non siamo in un giallo svedese. Siamo, purtroppo, nella realtà. La realtà italiana. 

Inchiesta
I fasciomafiosi alla conquista di Roma
9/9/2014
Da giovane, Semerari, pugliese di Martina Franca, posa a  comunista rivoluzionario: le sue posizioni sono così estreme che lo stesso Partito lo liquida come provocatore. Diventato rapidamente conclamato nazifascista, assurge a punto di riferimento della Destra estrema romana. Nel frattempo, s’insedia in cattedre di prestigio e scrive trattati sui quali si sono formate generazioni di legulei. Ormai consacrato luminare delle scienze forensi, non disdegna di redigere perizie quanto meno compiacenti per banditi di più o meno alto lignaggio: fra i suoi beneficiati, camorristi di vari clan e i ragazzi della Banda della Magliana.

Teorico della sovversione ideale, è accusato di tramare complotti, assoldare criminali in vista della costituzione di un esercito rivoluzionario, progettare attentati. Arrestato con l’accusa (mai provata) di complicità nella strage di Bologna del 2 agosto 1980, è provvidenzialmente scarcerato quando più voci danno per imminente un suo “crollo psicologico”. Rimesso in libertà, torna al lavoro, con una disinvoltura eccessiva che, forse, lo condurrà alla terribile fine. 

De Rosa non è troppo convinto della verità giudiziaria: troppi legami pericolosi, troppe coincidenze inquietanti, troppi “suicidi” inspiegabili, nell’entourage del Professore Nero, per non alimentare sospetti. La chiusa del volume è emblematica: “un cattivo maestro, un genio mitomane, un narcisista complottista. Questa è la storia di Aldo Semerari, crocevia di trattative inconfessabili tra mafia, Stato e poteri deviati. Con un finale aperto, in cui ci sono un colpevole certo e mille sospetti su quanti volevano davvero quella testa tagliata”.

Difficile non condividere. De Rosa si addentra, con spirito fortemente critico, in quel grumo oscuro della nostra recente storia patria che definiamo, di volta in volta, “anni di piombo”, “strategia della tensione”, e che il presidente dell’ultima Commissione Stragi definiva “guerra civile a bassa intensità”. Forse è un’esagerazione dire che Semerari, per i suoi legami con l’estremismo, per la frequentazione di criminali niente affatto alieni a intrattenere, a loro volta, relazioni pericolose con settori deviati dello Stato, per il potere che gli derivava dal prestigio professionale, fu un protagonista di quella stagione: ma la sua parabola umana, politica e tecnica rende la sua figura sicuramente emblematica.

Gli interrogativi irrisolti che suscita il racconto di De Rosa, insomma, valgono per l’uomo Semerari come per i tanti delitti italiani a sfondo politico-criminale degli anni recenti. Cinquemila vittime dal ’46 al ’93, secondo la stima di uno studioso del calibro di Aldo Giannuli. 

Né gli storici né i politici sono riusciti ad approdare a una ricostruzione condivisa di quegli anni: e, attesa la diversità di posizioni, sarebbe stato utopistico aspettarsi un simile risultato. I tribunali hanno giudicato nei limiti a loro consentiti dai continui ostacoli di volta in volta frapposti ai giudici: e questa non è una petizione di principio, ma una verità consacrata in un documento ufficiale, se è vero che la Relazione del Copaco del 1995 elenca ben quattordici casi di “deviazioni” accertate. Quattordici depistaggi di Stato volti a impedire che si facesse giustizia su crimini, diciamo così, “sensibili”.

A partire da quella strage di Peteano del 1972, caso risolto solo grazie alla lucida confessione dell’autore materiale, il neofascista Vincenzo Vinciguerra, passando per le “esfiltrazioni” di sospetti bombaroli, il Supersismi parallelo, l’operazione “Terrore sui treni” e via dicendo. Ma la verità giudiziaria, per riprendere le parole di Alfredo Rocco, uno che se ne intendeva, è pur sempre “la verità umanamente possibile”, condizionata com’è dal gioco delle parti che anima il rito processuale. Non necessariamente coincide con la verità storica.

La Cassazione ha accertato l’identità degli esecutori materiali della strage di Piazza Fontana, ma costoro erano già stati assolti in precedenza, e dunque sono rimasti impuniti. Coloro che sono stati condannati per la strage di Bologna continuano a professarsi innocenti. E c’è chi sostiene che sappiamo tutto sulla morte di Aldo Moro e chi ritiene che vi siano ancora misteri irrisolti dietro l’eccidio di via Fani. E qualcuno continua a domandarsi perché si fu inflessibili con Moro prigioniero e si scese a patti con camorristi e terroristi per salvare Ciro Cirillo. 

Negli anni Novanta, caduto il Muro di Berlino, sulla scia delle rivelazioni su Gladio, si discusse molto di questi temi. Sembrò, a un certo punto, che avremmo finalmente rimesso a posto i tanti tasselli mancanti. Dopo tutto, si è trattato della nostra storia. Dopo tutto, se si decide di voltare pagina, perché non fare chiarezza sino in fondo? Si agitò, a un certo punto, la proposta di una  commissione alla Sudafricana: sottrarre l’accertamento dei fatti criminali alla giustizia, attraverso una garanzia di non punibilità, ma ottenere, in cambio, la verità. Proposta giudicata irricevibile pressoché all’unanimità. Poi, di colpo, l’interesse si è spento. E la memoria si affievolisce. Spiegare a un ragazzo di oggi il contesto della guerra fredda, per intenderci, è impresa ardua. Dopo poche parole la sua mano corre all’ideale telecomando. Cambia canale perché appartiene a un altro mondo. Questo vecchiume non gli interessa. Punto e basta. Libri come questo di Corrado De Rosa hanno il merito di riaprire un discorso che sembrava seppellito da altre urgenze, più incombenti.

La biografia di Semerari è improntata a un’ansia di verità che è ancora più lodevole perché proviene da un quasi quarantenne che all’epoca di Moro aveva tre anni. Dimostra che “verità” non è poi un valore così deprezzato. Persino in un Paese, come il nostro, che sembra aver fatto propria la battuta del fool di Re Lear: “la verità è un cane da mandare a cuccia a frustate”.