Il virus è letale, ma facile da bloccare con medici e terapie. Perciò non ce ne occupiamo. E lasciamo al suo destino l’Africa. Sbagliando

Quando Patrick Sawyer ha toccato terra all’aeroporto di Lagos, domenica 20 luglio, la paura ha fatto un giro di boa. Un quarantenne che veniva da Monrovia moriva tra le pene che infligge il virus Ebola - febbre, vomito, diarrea, dolori muscolari ed emorragie - appena sbarcato nella megalopoli. E anche i più ottimisti cominciarono a dirsi che quando un killer come quello sale su un aereo e arriva in un posto come la Nigeria, crocevia di milioni di persone e traffici col mondo intero, è segno che bisogna cominciare a preoccuparsi molto. Ma Sawyer è rimasto per settimane un caso unico nel grande e popolosissimo paese del petrolio. E fuori dal triangolo maledetto di Guinea, Liberia e Sierra Leone - l’epicentro dell’epidemia che ha infettato a oggi oltre 2.473 persone uccidendone più di 1.350 - morivano solo gli operatori sanitari che avevano aiutato i malati in quel remoto angolo d’Africa.

Oggi i casi accertati in Nigeria sono 15. Ma tanto basta perché il mondo intero sia sull’orlo di una crisi di nervi, e non passi giorno che, dall’Austria al Messico, dalla California alla Germania alla Spagna, non scatti l’allarme per una morte sospetta. Il salto è fatto.

2014: L'AVANZATA

Ebola 2014 non è più l’ennesimo flagello africano del quale addolorarsi ma non preoccuparsi più di tanto. È diventato un problema di tutti. E, sotto sotto, a tutti viene in mente un altro flagello, l’Aids che è nato e si è pasciuto in Africa per anni, poi, all’improvviso è spuntato a San Francisco, a New York, a Berlino; e ha cambiato il mondo. Ebola non è Hiv, per ragioni tecniche molto precise: si può contenere facilmente perché i malati diventano contagiosi solo nel momento in cui iniziano a sviluppare i primi sintomi. Ma nemmeno l’Africa è più quella del 1980. Il pianeta è global, il continente nero è global.

KILLER A CONFRONTO
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Basta poco perché una malattia, come Ebola, destinata per le sue stesse modalità di trasmissione a restare confinata, si propaghi sulle ali della povertà, di servizi sanitari inesistenti, di popolazioni già provate da diarrea, malaria, e dallo stesso Aids. In aeroplano o lungo le rotte camionali che percorrono l’Africa, come già fece Hiv che infettò il continente muovendosi sulla prima grande transafricana, che da Capetown va verso Il Cairo. Oggi le transafricane sono sette e si rimane di stucco a vedere stampata sul “New England Journal of Medicine” la mappa della strada che da Conakry, capitale della Guinea, dall’Atlantico va verso est attraversando gli epicentri di Ebola 2014.

Gli scienziati più blasonati del mondo cercano l’origine e i mezzi di trasmissione del tipo di virus che colpisce oggi (Guinea Ebov) e si trovano lungo uno stradone scalcinato che attraversa migliaia di chilometri di savane e foreste. Ci abitano colonie di scimpanzé, stormi di enormi pipistrelli golosi di frutta e gli umani più poveri del pianeta. Una combinazione, questa, che ha detonato la bomba. Ha cioè permesso il passaggio del virus dalle specie animali alla nostra.

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E ora che il killer guineiano è tra noi, quanto ci vorrà perché sbarchi a Milano, Roma, Parigi o Londra? Per gli scienziati questo non conta molto, perché c’è un dettaglio che, in preda alla paura, ci dimentichiamo: Ebov flagella i più poveri. In Sierra Leone ci sono due medici ogni centomila persone, in Guinea la spesa sanitaria procapite è di 62 dollari l’anno, e in Liberia, nella stessa capitale Monrovia non c’è letteralmente nemmeno un presidio sanitario, come ha rivelato il presidente di Medici Senza Frontiere Joanne Liu. Stefano Vella (nel box della pagina a fianco) spiega nel dettaglio perché noi non abbiamo niente da temere. E poi c’è un siero che sembra (solo sembra, e in seguito diremo perché) antiEbola. Ma, seppur protetti da tonnellate di farmaci, acqua pulitissima e pannicoli di grasso, Ebola ci sta cambiando. Come ci ha cambiato Hiv. Ecco perché.

AVERE DUE ANNI A MELIANDOU
È toccata a un bambino di due anni febbricitante in una casetta cupa di Meliandou, cittadina nella prefettura di Guéckédou, in Guinea, la colpa di essere il paziente zero. Secondo gli scienziati che hanno identificato e tracciato il virus 2014 - descrivendolo sul “New England Journal of Medicine” - il piccolo potrebbe aver mangiato della frutta, magari raccolta per terra, contaminata dalle feci di una delle migliaia di volpi volanti (o pipistrelli della frutta) che svolazzano nei cieli spalancando tre metri di apertura d’ali e portandosi in pancia, senza farsi uccidere, il virus. «Ebola vive di norma all’interno dell’organismo di questi pipistrelli che abitano nelle foreste africane, e infetta l’uomo solamente attraverso il contatto casuale con la loro carne cruda o fluidi vitali», racconta Saverio Bellizzi, epidemiologo di Medici Senza Frontiere che negli scorsi mesi ha seguito l’epidemia dalla Guinea. Il piccolo muore il 6 dicembre. Pochi giorni, ed è la volta della madre, della sorellina di 3 anni, della nonna. E una tragedia familiare si trasforma, in qualche mese, in un’emergenza sanitaria globale. Per la prima volta, nella storia di questo virus, che ha colpito più volte l’Africa, l’epidemia esce dalle aree rurali e contamina le città: il passo, decisivo, per diventare pandemia.

Va veloce il virus guineiano, lungo le camionali, di villaggio in villaggio. E quando arriva a Monrovia, Conakry, Freetown, le grandi città senza protezioni sanitarie, diventa inarrestabile. Innanzitutto, spiegano gli scienziati sul “Nejm”,perché è del “ceppo Zaire”, il più pericoloso dei cinque esistenti, capace di annientare oltre l’80 per cento degli infettati. «Tutta la zona dove ha avuto inizio la nuova epidemia è abitata dalle volpi volanti, e in passato potrebbero quindi già esserci stati piccoli focolai di cui non siamo a conoscenza», continua Bellizzi: «Questa volta però l’infezione ha avuto origine in una regione che si trova proprio al confine tra Guinea, Liberia e Sierra Leone. Un’area dove la gente si muove molto, dove passano strade e si spostano merci». Ma non solo: per capire il disastro, secondo l’epidemiologo di Msf, bisogna pensarsi a Meliandou, dove nessuno immagina neppure che esista quella maledetta febbre emorragica, e dove ci sono molte più fattucchiere che operatori sanitari.

FUNERALI & FATTUCCHIERE
La ricostruzione del “New England Journal of Medicine” ipotizza che dopo la morte del bambino, il virus, inizialmente circoscritto alla famiglia, abbia iniziato a diffondersi durante il funerale della nonna, una cerimonia che ha chiamato gente da villaggi distanti anche un centinaio di chilometri, tutti a toccare e baciare la salma del defunto. Infettandosi per poi riportarsi a casa il virus spostando l’epidemia di villaggio in villaggio, dove la gente ha continuato a morire inconsapevole fino a marzo, quando è scattato l’allarme nazionale coi primi due casi riconosciuti ufficialmente.

Perché, comunque, riconoscere Ebola non è facile: non sempre compaiono le emorragie e gli altri sintomi possono essere facilmente confusi con quelli di malattie endemiche in Africa, come la malaria. Certo è che avere contatti coi fluidi corporei di un morto è comunque una pessima idea. E lo sottilinea la stessa Margaret Chan, direttore generale dell’Oms: «Una misura prioritaria è quella di cambiare le pratiche funerarie che comportano stretti contatti con corpi altamente contagiosi. In Guinea, per esempio, il 60 per cento dei casi è collegato ai funerali tradizionali».

Chan aggiunge poi che a complicare le cose c’è il proliferare di maghi e curatori che propongono sistemi bizzarri per evitare il contagio. Che seminano la diffidenza verso i medici. Che supportano l’idea che il governo voglia rubare il sangue dei morti, e così via. Insomma, Chan indica nell’arretratezza il più fedele alleato del virus che si propaga lungo le rotte della moderna globalizzazione (proprio come accadde trent’anni fa con l’Hiv).

TUTTA COLPA DI ELLEN
Così l’epidemia diventa il serbatoio di una crisi sociale esplosiva: gli scontri dei giorni scorsi a West Point, il sobborgo di Monrovia dove decina di migliaia di persone vivono ammassate in baracche senza alcun servizio, la leggono in filigrana. A West Point: disoccupati, bambini soldato reduci della guerra civile, mendicanti che affollano ogni giorno le strade della capitale, e un’unica scuola che il ministro della Salute di un governo odiatissimo trasforma in un cronicario per malati di Ebola. È la miccia: il 17 agosto bande di ragazzi armati di bastoni assaltano il cronicario, liberano i malati e rubano la biancheria infetta. Nel giro di qualche giorno le autorità affermano di averli ritrovati e rinchiusi. Ma appena scende la notte, martedì scorso, il presidente Ellen Johnson Sirleaf impone la quarantena a tutto l’immenso sobborgo. E mercoledì per le strade è guerra. La signora appare nelle Tv di tutto il mondo a dire che deve pur contenere l’epidemia in un qualche modo. Ma gli arrabbiati di West Point gridano uno slogan già sentito ai tempi dell’Aids: «Ebola non esiste». Lo ha inventato il governo per opprimere la gente.

EPPURE SI PUÒ VINCERE
E invece Ebola esiste e sarebbe persino facile contenerne l’impatto. «Quello che serve è un’opera di sensibilizzazione della popolazione, e la collaborazione delle personalità importati delle comunità locali», sottolinea infatti Bellizzi. E conferma sul campo la presa di posizione di Francis Omaswa, Executive Director of the African Center for global Health and Social Transformation, che dice: «Per frenare l’epidemia bisogna riconquistare la fiducia della gente». Invece, racconta Berizzi: «La gente è diffidente verso gli operatori sanitari. In Guinea, alcuni capivillaggio allertano le autorità alla prima comparsa di sintomi sospetti. In altri villaggi, invece, incontriamo moltissima resistenza, i pazienti fuggono quando arriviamo per sottoporli alle analisi. E ai rappresentanti del governo oppongono un secco no».

Ma contro Ebola l’unica arma è la tempestività. Sia per isolare e contenere i casi, sia per trattare i malati con terapie che intervengono sui sintomi - come la febbre o la disidratazione - e sulle patologie concomitanti. «Le terapie di supporto devono però essere somministrate presto, a non più di un giorno dall’esordio dei primi sintomi della malattia», spiega Bellizzi: «In Guinea, nel nostro ospedale, ad esempio, siamo riusciti a far scendere la mortalità a circa il 25 per cento».

Perché di Ebola si può guarire. Con le terapie di supporto, la buona assistenza. E da qualche giorno anche con lo Zmapp, un siero, fatto da tre anticorpi monoclonali capace di attivare la reazione del sistema immunitario contro il virus. Lo dimostra la buona forma del medico missionario Kent Brantly e dell’infermiera Nancy Writebol, contagiati in Liberia, trasferiti in gran fretta all’Emory University Hospital di Atlanta e curati con questo farmaco sperimentale. Il Samaritano ha ringraziato Dio in diretta Tv, ma i sanitari dell’Emory hanno spiegato che nessuno può dire sul serio che a guarire i due americani sia stato il siero. Di solito per essere sicuri che un farmaco funzioni si va a vedere cosa succede a pazienti che lo prendono e a quelli che non lo prendono messi nelle stesse condizioni. In questo caso non è successo, e per giunta due persone trattate col medesimo medicinale sono morte (un missionario spagnolo e un medico liberiano). Quindi nessuno sa se Zmatt ha fatto il miracolo, se lo hanno fatto le altre cure, o lo ha fatto davvero Dio.

I successi di Atlanta potrebbe aprire la strada alla sperimentazione di questa e delle altre terapie non testate nei paesi colpiti dalla malattia. L’obiezione di molti, tuttavia, è che si tratta di farmaci che in una situazione normale sarebbero ancora ad anni, se non decenni, dall’ingresso sul mercato. Nessuno ne conosce realmente tossicità ed efficacia. Ma Ebola uccide nella quasi totalità dei casi, quindi l’Oms potrebbe decidere di dare comunque il via libera. Una sorta di “meglio che niente” dai dubbi confini etici. E dai certi esiti sociali. Perché l’unico dato confermato è che i produttori non hanno scorte di farmaci sufficienti per un utilizzo su vasta scala.

L’azienda produttrice dello ZMapp ad esempio è una piccola biotech statunitense che di solito lavora per il dipartimento della Difesa, Mapp Biopharmaceutical Inc., che attualmente ha solo 100 dosi di farmaco pronte nei suoi magazzini. L’azienda stima che in un paio di settimane, lavorando a pieno regime, potrebbe arrivare a produrne un altro centinaio. Non è difficile immaginare i conflitti che si potrebbero creare visto che i possibili pazienti, solamente in Liberia, Guinea e Sierra Leone, sono circa un milione di persone. A meno di non pensare che il farmaco verrà destinato prioritariamente agli occidentali come Brantly e Writebol.

Per chiudere il cerchio del nuovo virus che flagella l’Africa, che si pasce di arretratezza e globalizzazione, che alimenta tensioni sociali. Ma dal quale noi, in Occidente, siamo in grado di difenderci. Lo aveva detto a proposito dell’Aids Nadine Gordimer, la scrittrice sudafricana scomparsa poche settimane fa: «Ha a che fare, in fondo, con il nostro stesso modo di esistere. Ci confronta con una domanda che deve trovare una risposta storica: cosa ne abbiamo fatto del mondo, politicamente? Cosa ne stiamo facendo? Cosa intendiamo per sviluppo?».