Paghe da fame, orari di lavoro impossibili, diritti negati, straordinari non pagati e continuo ricorso al nero. Il dossier “Quanto è vivibile l’abbigliamento in Italia?” mette in fila tutti i mali dei distretti del Veneto, Toscana e Campania. Un far west di contraffazione e illegalità che potrebbe essere corretto

Il 1 dicembre di un anno fa, ore 7 del mattino, i lavoratori di Teresa Moda si preparavano ad una nuova giornata di lavoro. Chini sulle macchine da cucire fino a diciassette ore, per una paga tra i due-tre euro all’ora. Quaranta euro totali, senza fronzoli di buste paghe né contributi. Per mangiare e dormire il problema era stato risolto costruendo nel capannone nella periferia di Prato dei loculi-alloggi in cartongesso.

Loro erano cinesi e la maggior parte è morta per l’incendio che si è scatenato. Zero norme di sicurezza, nessun regolamento rispettato per produrre e vendere alle case di moda al maggior ribasso possibile.

L’indignazione, i titoli dei giornali e poi il ritorno alla normalità.

Questo c'è dietro il mondo scintillante della moda: un far west di non regole e sfruttamento, precarietà e un lavoro che quando non ammazza non dà garanzie di vivere sopra il limite della povertà.

Per capire e contrastare questo mondo è stata lanciata la campagna Abiti Puliti – sezione italiana della Clean Clothes Campaign – che opera per il miglioramento delle condizioni di lavoro e il rafforzamento dei diritti dei lavoratori nell’industria tessile globale attraverso la sensibilizzazione e la mobilitazione dei consumatori, la pressione verso le imprese e i governi.

Nel dossier “Quanto è vivibile l’abbigliamento in Italia?” si mettono in fila fatti e racconti dai principali distretti del made in Italy, dove si dovrebbe produrre qualità dei manufatti e della vita per chi è impiegato e invece si scoprono tutti i mali.

LA VERGOGNA IN CASA NOSTRA
Non è un solo un problema lontano, esotico, che tocca figli, lavoratori e minorenni stranieri impegnati a cucire palloni, scarpe e borse per il mercato globale.

Nei distretti italiani (l’abbigliamento a Prato, la pelletteria a Firenze, le calzature della Riviera del Brenta e il sistema moda della provincia di Napoli) le storture sono note: contraffazione che va a braccetto con il lavoro nero e la produzione totalmente sommersa.

E poi l’apartheid professionale: donne e migranti svolgono le mansioni più ripetitive e semplici, mentre gli uomini sono collocati nei servizi, nella progettazione, nel taglio delle pelli e nel montaggio della calzatura. Solo il modellista che fabbrica il prototipo a partire dai disegni dello stilista si salva, con qualifica e stipendio maggiore.

Per tutti, italiani e non, le condizioni di partenza sono le stesse: provengono dalle classi meno abbienti e con scarsi livelli di istruzione. Tra gli assunti nel periodo 2008-2013 un decimo era senza titolo di studio, la metà disponeva della licenza media, un quinto aveva conseguito un diploma di scuola superiore e solo il 5 per cento la laurea.

Ancora più drammatico il caso della provincia di Napoli, dove la stragrande maggioranza dei lavoratori appartiene al ceto popolare con bassi livelli di istruzione.

Metterli in scacco con nessun diritto riconosciuto, la normalità, come racconta questo operaio: «Di solito facciamo un’ora di straordinario al giorno quando c’è tanto lavoro, però non pagano. Fanno "flessibilità". Se tu superi le 120 ore all’anno, dalla successiva ti pagano un’ora di straordinario. Però noi siamo fortunati, perché se lavoriamo il sabato loro pagano subito, sempre».

Per anni con il ricatto del posto assicurato si rimane a livelli contrattuali particolarmente bassi, come raccontano queste due modelliste: «Ho fatto uno stage di prova per un mese e poi mi hanno assunto come apprendista a tempo determinato. Cinque anni, il massimo che potevano fare. Logicamente pagano meno contributi. All’inizio sono partita da 900 euro. Poi piano piano ho maturato il resto».
 
Nessuna mobilità: «Non ho cambiato livello in quindici anni di lavoro, per avanzare e? necessario dare molto, ad esempio le prestazioni straordinarie possono farti avvicinare le simpatie del capo, io ho sempre chiesto l’aumento, ma non me l’hanno mai dato».

DIRITTI? NO, GRAZIE
Dalle interviste realizzate è emerso che in Toscana come in Campania convivono in molte piccole aziende (in quelle superiore a 50 addetti è più difficile) occupazioni regolari e irregolari.

Come? Grazie ai contratti part-time che però valgono per l’intera giornata, o di dipendenti che una volta messi in cassa integrazione (grazie ai fondi pubblici destinati alle aziende in crisi) sono in realtà richiamati per continuare a svolgere lo stesso compito nello stesso reparto.

Una truffa, tutta in nero, con nessuno che reclama per non perdere lo stipendio e l’orario che si allarga a dismisura. Forzatamente si rimane oltre la fine del turno o nel fine settimana, senza nessuna paga extra per lo straordinario.

E poi in Toscana, nel settore pellettiero-calzaturiero e in quello dell’abbigliamento (abiti da sposa) e degli accessori (guanti, cappelli) sono ancora diffuse forme di lavoro a domicilio pagate a cottimo in base ai modelli e al numero di prodotti realizzati.

Si tratta in parte di modalita? di lavoro regolari e in parte irregolari, come racconta una lavorante a domicilio che cuciva in nero: «Io cucivo le tomaie a mano, con ago e filo: un lavoro duro. Infatti ora mi fanno male tutte le braccia. Io e mio figlio facevamo 20-30 paia. Mi pagavano al paio, tutto in nero. Ti svegliavi alle 6 del mattino, eri a casa quindi potevi guardare anche la televisione mentre lavoravi e fino alla sera tiravi tutto il giorno il filo. Per prendere poi alla fine del mese 500, 600 euro. Poi ho avuto questi dolori e ho smesso».

Il contrasto è evidente se si paragonano i prezzi finali esposti nelle vetrine con le condizioni di lavoro di chi porta a casa questi stipendi da fame.

Tra le varie griffe sembra che la maison Prada sia quella in cui i rapporti sindacali siano più complicati e le condizioni di lavoro più critiche.

«Prada è l’unica delle grandi case del lusso nella Riviera del Brenta che applica il contratto di lavoro del cuoio sebbene la produzione sia calzaturiera, perché in sostanza produce scarpe. Il contratto per il cuoio è leggermente più basso come livello economico e come avanzamento normativo rispetto al contratto tessile o al contratto calzaturiero. Quindi è una scelta un po’ furbesca», spiega un funzionario sindacale ascoltato nel dossier.

Per invertire la rotta la campagna abiti puliti chiede poche semplici mosse.

A partire da tutte le misure necessarie per richiamare le imprese italiane alla responsabilita? di rispettare i diritti umani (incluso il pagamento del salario dignitoso), rafforzare l’attivita? dell’Ispettorato del lavoro per aumentare la capacita? di controllo e favorire l’emersione del lavoro illegale e proteggere l’attivita? sindacale sui luoghi di lavoro.

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