Un cantautore diventato scrittore. E il disegnatore simbolo della sinistra. A parlare di politica, ricordi e dell'importanza del Premio Tenco. Dove Joni Mitchell ballava sui tavoli
La politica no, sostiene con voce baritonale Guccini: «Non ne parlo più perché oggi la gente travisa quel che si dice e in un secondo ci si ritrova su quei mezzi diabolici, come si chiamano, i social».
Eppure passando una serata con due anziani signori, riconosciuti unanimemente come impegnati, si ha la tentazione di buttarla in politica. Francesco Guccini e Sergio Staino sono come due gemelli di madri differenti: affabulatori, giocosi, arguti. Si stuzzicano e si prendono in giro continuamente, tanto che viene da chiedere se Guccini non sia mai entrato nel Pci perché in quel partito c’era Staino. «Be’, sì. Questa è una buona ragione», risponde ghignando il cantautore che con “L’ultima Thule” del 2012 ha appeso la chitarra al chiodo. E il vignettista sdegnato volta la faccia dall’altra parte sentenziando: «Queste sono favole. È che lui era socialista».
[[ge:rep-locali:espresso:285165004]]«Finché non c’era Craxi», replica Guccini, «poi me ne sono andato. Io sono sempre stato azionista, una specie di anarchico romantico e non sono mai entrato nel Pci perché non ero stalinista. Non potrò mai dimenticare quando i comunisti uccisero gli anarchici nella guerra civile spagnola, e l’invasione sovietica dell’Ungheria del 1956». Staino prende la palla al balzo: «Guarda cosa stanno combinando adesso in Ungheria. Costruiscono muri, stendono fili spinati contro povera gente che scappa dalla guerra in Siria. È una vergogna». «Ma quelli sono fascisti», ribatte Guccini. «Stiamo scherzando!? È una follia respingere con tanta violenza i profughi. È bizzarro che questi paesi del centro Europa si oppongano così a una migrazione di necessità, proprio ora che sono arrivati alla democrazia…».
Siamo a casa di Guccini, sull’Appennino tosco-emiliano. Più che un cantautore, un pezzo di storia della cultura italiana: non solo dischi - venticinque - ma anche ventitré libri, compreso quello che uscirà a Natale da Mondadori, “Tra un matrimonio e un funerale, per non parlare del gatto”. Ma serve fare un passo indietro, perché se arrivare a Pàvana è facile, e lo è ancor più se il passeggero è Staino che è stato qui tante volte, può capitare che lungo il tragitto si chiacchieri amabilmente, infischiandosene dei cartelli stradali, e si salti un bivio e ci si ritrovi in un luogo immaginario – diciamo “tra la via Emilia e il West”. Ma c’è sempre un pavanese, dei circa 900 che abitano la frazione di Sambuca Pistoiese, che a domanda diretta sa rispondere con assoluta certezza: «Casa di Guccini è quella».
E sul portone c’è lui, alto e con la sigaretta perennemente accesa, che ci fa strada fino al grande tavolo della cucina. È qui che si comincia a parlare dell’omaggio che il Premio Tenco gli farà dal 22 al 24 ottobre: tre giorni in cui l’eletta schiera di colleghi cantautori , da Carmen Consoli a Roberto Vecchioni, si darà il cambio sul palco dell’Ariston per interpretare le sue canzoni. Seduto, spalle al camino, Guccini ricorda che al Premio Tenco lui c’era fin dagli albori, nel 1973: «Amilcare Rambaldi chiamò me e Deborah Kooperman a fare un concerto. Poi l’anno dopo cominciò la rassegna vera. Mi pare che De Gregori non riuscì a venire e, oltre all’apertura, mi toccò fare anche la chiusura. Così gli spettatori si sorbirono due locomotive. Invece, quando fu premiato Pablo Milanés, il cantante della Nueva Trova, venne a Sanremo anche l’ambasciatore cubano. Allora io e Carlo Petrini - che ora presiede Slow Food, ma allora faceva cabaret col Trio di Brà - decidemmo di fare un omaggio canoro all’ambasciatore. Ci mettemmo a cantare “Que linda es Cuba”, ma quando arrivammo alla strofa “un Fidel que vibra en la montagna”, a noi venne proprio spontaneo proseguire con “e bada ben che non si bagna”, e rischiammo l’incidente diplomatico».
Non si ferma più, Guccini: «Agli inizi ci divertivamo molto, facevamo goliardate a non finire. La verità è che quello era il momento clou della canzone d’autore ed eravamo pochi: un gruppo ristretto di amici che potevano stare sul palco con colleghi stranieri come Atahualpa, Leo Ferrè, Tom Waits, Leonard Cohen. Una notte, dopo il concerto, a cena con Claudio Lolli ci mettemmo a cantare a squarciagola e Joni Mitchell, che quella sera aveva pure un po’ di febbre, si lanciò a ballare sui tavoli».
«Sì», commenta Staino, «la serata vera al Tenco cominciava dopo lo spettacolo, quando si andava a cena. Io ci sono arrivato nel 1981, portato da Paolo Conte, e mi accorsi subito che era un crogiuolo di creatività, non solo musicale. Noi fumettari e comici ci sentivamo trattati come artisti di serie B. Fu il Premio Tenco a far capire a me Riondino, Serra, Bonvi, ElleKappa e altri, la dignità del nostro lavoro. Quando c’era Andrea Pazienza con Guccini facevano le gare: a chi diceva la battuta più arguta, a chi era più alto, a chi era più bello, a chi disegnava meglio sulle tovaglie del ristorante, a chi piaceva più alle donne… Insopportabili». «Perché tu non sei mai stato bello. E poi perché con Pazienza si passava molto tempo in infermeria», dice Guccini. «Sì», replica Staino, «l’infermeria del Tenco era la stanza dove si mesceva vino senza sosta».
Sono qui, questi due tipacci, nati entrambi a giugno del 1940, a soli sei giorni di distanza l’uno dall’altro, che ripercorrono ricordi di un mondo dello spettacolo ormai profondamente cambiato. Ma Guccini spiega che alla fine i cantautori sono ancora sulla breccia: «Lo vedo quando presento i miei libri», dice. «Nelle librerie ci sono persone di tutte le generazioni, anche i tredicenni che ascoltano Fedez. Tre anni fa hanno affittato una locomotiva a vapore e da Bologna sono venuti fin quassù. Erano circa 400 persone, da tutta Italia. Allora gli ho detto che era bellissimo, che mi sentivo come Carlos Gardel i cui estimatori lasciano sempre una sigaretta accesa tra le dita della sua statua, nel cimitero di Buenos Aires, e che anche a Novellara, alla tomba di Augusto Daolio dei Nomadi, c’è la fila dei fan. Ma, ragazzi, io sono ancora vivo!».
A Pàvana Guccini, modenese di nascita, vive da tanti anni con sua moglie Raffaella, e di questo paese e del suo dialetto è profondamente innamorato. «Quassù i miei nonni avevano galline, conigli, maiali», racconta. «E poi c’era l’erba spagna e la muraiola che si usava per pulire le bottiglie di vetro, che in realtà si chiama parietaria e che ho citato pure in una canzone. Ma al mio produttore Renzo Fantini non piaceva questa strofa, allora per scherzare scrissi una variante: i ciuffi di erba di merda attaccati ai muri. E lui perplesso ma serio mi disse: mmh, già meglio di parietaria…».
«A Bologna oggi torno raramente», prosegue. «Ho ancora casa e qualche amico, ma ormai a Bologna mi perdo». «Ci va per le visite alla prostata», commenta Staino. «Non ho quei problemi», ribatte Guccini, «e qui l’unico che finora è andato al gabinetto sei tu». «Lo dicevo per dare qualche scena pulp ai giornali», scherza Staino, che ricorda quanto il suo amico Guccini sia una persona vera, che non si è mai montato la testai: «Credo sia una questione di educazione», spiega. «Come per me. Mio padre, nonostante lavorassi già per “Linus” e altri giornali, mi diceva sempre che se mi davo da fare, magari un giorno sarei potuto diventare disegnatore tecnico per le Ferrovie dello Stato…». «Sì», dice Guccini, «noi siamo nati in ambienti dove se dicevi che facevi il cantante o il disegnatore ti chiedevano: sì, ma di lavoro cosa fai? Perché il lavoro vero era quello manuale. Io sono sempre stato schivo e restio ad apparire, e hanno sempre detto che la mia dote fosse la coerenza. Ma è perché mio babbo mi teneva “masato”, che in dialetto vuol dire stare basso, non tirarsela».
Ormai è ora di cena e si va a tavola proprio davanti casa, alla Caciosteria, da Domenico Zummo, detto Mimmo, che è un profugo come quelli di oggi, solo più antico: lui è venuto sull’Appennino all’età di quattro anni, quando i suoi genitori nel 1968 dovettero scappare da Gibellina, in Sicilia, e dal terremoto. Si cena, e Staino e Guccini litigano anche sul vino. Si comincia con un ottimo Gewürztraminer ma Staino, da buon toscano, vuole il rosso e chiede un lambrusco. Mimmo arriva con la bottiglia, riempie il bicchiere di Staino ma Guccini dopo un’occhiata all’etichetta fa: «Ragazzi, ma è di Mantova! Cazzo, Mimmo, era meglio un lambrusco modenese…».