Decine di porte sbattute in faccia. Da Nord a Sud. Dalle parrocchie alle basiliche. Così i sacerdoti ignorano l’appello del papa per l’accoglienza. Provato sul campo, dal nostro inviato che si è finto un rifugiato (Foto di Massimo Sestini per “l’Espresso”)

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Piove su Roma, c'è brutto tempo fuori. Martedì 13 ottobre un profugo curdo sfuggito alla guerra attraversa le navate di Santa Maria Maggiore, che con San Pietro è una delle quattro basiliche del papa. È sopravvissuto ai crimini dello Stato islamico e ai bombardamenti dell’esercito turco. Cerca un posto dove far dormire sua moglie e due bambini piccoli. Non per sempre. Soltanto per una, due, al massimo qualche notte, in attesa di proseguire il viaggio verso il Nord Europa: «Papa Francesco ha detto che ogni parrocchia, ogni comunità religiosa dovrebbe accogliere una famiglia di profughi». Nella sagrestia della stessa basilica dove Jorge Mario Bergoglio è venuto a pregare dopo la sua elezione nel Conclave, il frate dell’ordine francescano dell’Immacolata non gli lascia finire la domanda. E, sotto un grande Gesù che lo guarda dalla croce, reagisce stizzito: «Il papa può dire qualsiasi cosa, qua non è possibile... Non esiste».

[[ge:rep-locali:espresso:285166360]]È la ventiduesima porta santa sbattuta sulla faccia di Ibrahim Bilal, 49 anni, kurdo iracheno. Ma è solo un nome inventato, preso in prestito dall’inchiesta de “l’Espresso” di dieci anni fa “Io, clandestino a Lampedusa”. Bilal sono io: questa volta infiltrato tra gli esuli in cerca di asilo sul suolo europeo. Uno stratagemma per verificare se ciò che ha annunciato il pontefice è vero: «Un gesto concreto in preparazione all’Anno santo della misericordia. Ogni parrocchia, ogni comunità religiosa, ogni monastero, ogni santuario d’Europa ospiti una famiglia incominciando dalla mia diocesi di Roma», dichiara il 6 settembre da piazza San Pietro. Parrocchie, famiglie, comunità, secondo la Conferenza episcopale italiana, accolgono già 22 mila rifugiati in 1.600 strutture. Ma cosa succede se la richiesta di aiuto viene rivolta direttamente a uno dei 26.500 parroci che professano il Vangelo come regola di vita?

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Tre settimane di viaggio e 5.372 chilometri percorsi attraverso Italia, Francia, Svizzera e Germania rivelano una storia tutta diversa: quanto ha detto papa Francesco non è vero. Chi non può ancora mettere in regola i documenti o è soltanto in transito viene mandato via. Ibrahim Bilal chiede aiuto per sé, sua moglie e i suoi due bambini ventitré volte. Bussa a chiese, monasteri, parroci e religiosi. E per ventidue volte si sente rispondere no. Oppure gli dicono che serve l’autorizzazione della polizia: come se per praticare la parola di Cristo oggi fosse necessario il nullaosta della questura. Altri alzano semplicemente le spalle e lo cacciano. Come fa la segretaria di don Attila, il parroco di Colle Isarco, ultima chiesa prima del valico del Brennero, mentre Bilal la supplica in tedesco: «Fa freddo, ho due bambini».

Nemmeno nell’umida nebbia di Marktl in Germania, la parrocchia dove hanno battezzato ed è cresciuto papa Ratzinger, offrono un riparo. Porta chiusa perfino al Centro Astalli, l’istituzione romana per i rifugiati gestita vicino all’Altare della Patria dai gesuiti, l’ordine da cui proviene papa Bergoglio. Bilal non ha documenti italiani. «Noi siamo un’associazione che collabora con il Comune di Roma», rispondono, «non possiamo accettare clandestini. Non troverà mai un posto per dormire. È un fantasma».

Soltanto una volta, una sera all’ora di cena, un sacerdote apre la porta. Ascolta e dice: «Venga, venga». Sfoglia l’agenda e si mette a telefonare. Don Rodolfo è il parroco di Pré Saint Didier, mille abitanti in Valle d’Aosta. Poco dopo, in tempo per la notte, la famiglia di Bilal ha un tetto sotto cui dormire al sicuro. Don Rodolfo dimostra che la solidarietà è possibile, esiste. Ma è l’eccezione, tra molti Ponzio Pilato in abito talare. Questo è il mio diario di viaggio, dal 22 settembre al 13 ottobre. Il primo dei ventidue giorni comincia simbolicamente da piazza San Pietro. E porta in Piemonte, al confine con la Francia.

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SOTTO LA PRIMA NEVE
La neve sbianca l’argento delle rocce, appena sopra l’ultimo paese italiano. Bardonecchia è un passaggio obbligato per evitare il blocco dei profughi alla frontiera di Ventimiglia-Mentone. Dal colle del Frejus cadono scrosci di vento gelido. La canonica della chiesa di Sant’Ippolito è una bella casa a due piani, cinque finestre per lato, i gerani affacciati al balcone. Un citofono. Apre un sacerdote, forse il parroco. La tonaca lunga una ventina di bottoni, un grande affresco dietro di lui. Bilal parla un inglese grossolano, un po’ di arabo, poche parole di italiano. Si presenta come profugo iracheno e spiega che la sua famiglia lo sta raggiungendo. Chiede un tetto per una o due notti dove riscaldare i bambini, in attesa di passare il confine. Il prete risponde soltanto in italiano.

Ma si capiscono. «Qui non c’è posto per dormire», dice lui: «E dove ti metto? Perché tu devi andare in albergo», suggerisce il prete. No money, non ho soldi, rivela Bilal. No sleep, non date da dormire? «Qui no» e il sacerdote sottolinea il no con l’indice. Bilal racconta che deve andare in Francia. «Francia Caritas Modane», aggiunge allora il prete, «qui no». Because I’ve heard the pope, perché ho sentito il papa... «Cos’è pope?», chiede lui. «Dormire in chiesa no», aggiunge subito dopo dimostrando di avere capito: «Va a vedere a Modane, Francia, Caritas Modane». No document, police, dice chiaramente Bilal. «Ah, quello non so, non so police», risponde il prete alzando tutte e due le mani.

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L’aiuto si ferma qui, sulla soglia della canonica da dove Bilal e il sacerdote non si sono mai mossi. Uno fuori, l’altro dentro. La porta si richiude. Diceva il Vangelo letto in tutte le chiese questa mattina (Luca 9, 1-6): «Non prendete nulla per il viaggio... In qualunque casa entriate, rimanete là, e di là poi ripartite. Quanto a coloro che non vi accolgono, uscite dalla loro città e scuotete la polvere dai vostri piedi come testimonianza contro di loro».

IL MURO DEL MONTE BIANCO
È la parrocchia delle vacanze invernali del premier Matteo Renzi. Il paese delle ville dei vip della finanza. A Courmayeur la catena del Monte Bianco, sotto la luce silenziosa del tramonto, è il solenne muro che divide il caos mediterraneo dall’ambizione di un asilo in Europa. Il campanile di San Pantaleone domina il centro. Gli uffici del parroco e del viceparroco sono subito dietro. Appare alla porta uno dei due: jeans, occhiali appesi al collo sotto una barba bianca. Parla un po’ d’inglese. La notte fa molto freddo, ho sentito che nelle parrocchie è possibile dormire, insiste Bilal, dopo aver raccontato della sua famiglia. Lui scuote la testa per dire di no: «Qui è impossibile», risponde: «In Italia è necessaria l’autorizzazione dello Stato».

Ma papa Francesco ha detto che... «Il papa ha detto», lo interrompe lui, «ma devi avere l’autorizzazione». Continua a fare no con la testa: «Devo avvertire la polizia», sostiene: «C’è una legge dopo il terrorismo». Terrorismo? «Sì, in Italia c’era il terrorismo nel 1977 e adesso c’è una legge per cui bisogna dare il nome alla polizia». Il prete rientra in ufficio. L’ingresso è ben arredato. Forse telefona davvero alla polizia. No, il sacerdote ritorna sulla soglia con un biglietto da dieci euro in mano. «Questo è per te, un piccolo aiuto», dice e offre la banconota. No, grazie, non posso accettare, risponde Bilal. Allora lo invita ad andare a cercare da dormire alla Caritas di Aosta, 36 chilometri a valle, direzione opposta alla Francia. Stringe la mano e chiude la porta. Suonano le campane. È l’ora della messa vespertina. Il prete riappare sull’altare.

COME I NOSTRI EMIGRANTI
Sette chilometri più a valle, Pré Saint Didier non è solo il bivio per passare in Francia da La Thuile e dal Piccolo San Bernardo. Nel febbraio 1947 da qui sono saliti pieni di brividi e neve Egisto Corradi, il grande giornalista, Sarino Caruso, barbiere disoccupato di Sant’Angelo di Brolo in Sicilia, e la sua valigia piena di fichi secchi. «Usciamo da La Thuile a passi rapidi», scrive Corradi. È la via verso la salvezza percorsa da migliaia di italiani durante il fascismo, la Seconda guerra mondiale e l’emigrazione dalla miseria che l’ha seguita. Richiedenti asilo e clandestini, direbbero di loro oggi. Ed è come se l’impronta del loro dolore si respirasse ancora nell’aria.

La generosità di don Rodolfo, il parroco di Pré Saint Didier, non si ferma alla porta. «Venga, venga», dice a Bilal e lo accoglie in casa. Telefona al nuovo parroco di Entrèves, il villaggio subito dopo Courmayeur: «C’è qui un signore iracheno e domani dovrebbe arrivare sua moglie con due figli». Lo chiama proprio così: signore iracheno. «Mi chiedeva se c’era una casa di religiosi per una o due notti, perché poi vanno in Francia...», continua don Rodolfo: «Io ve lo posso accompagnare perché lui non ha la macchina».

L’unico sì in tre settimane non ha bisogno di suppliche. Nessun problema se Bilal è senza documenti. Prendono lui e la sua famiglia alla casa dei padri Somaschi a Entrèves. Ma non si può sottrarre il letto a chi chiede realmente aiuto. Con una scusa, il viaggio riprende subito. Don Rodolfo è davvero un’eccezione. All’ingresso della chiesa ha esposto la famosa foto di Aylan, il piccolo siriano annegato tra la Turchia e la Grecia: il viso riverso sulla sabbia, la sua pelle tenue come petali di rosa.

QUANDO I PROFUGHI ERAVAMO NOI
Cinquecentosessanta chilometri a Est, il fiume Tagliamento incrocia le rotte dei profughi che oggi marciano verso Austria e Germania. Un secolo fa i siriani e gli iracheni in fuga eravamo noi italiani: dopo la disfatta di Caporetto decine di migliaia di friulani hanno attraversato le campagne di Rivignano e il ponte di Latisana. «È la mezzanotte. Sento voci gridare, mi affaccio alla finestra, a Oriente il cielo è tutto rosso come tinto di sangue vivo. Donne che piangono! E gridano di fuggire, ma come fuggire?», scrive il 29 ottobre 1917 don Annibale Zoratti, parroco di Malisana, a pochi chilometri da qui. Oggi pomeriggio il prete corpulento nella canonica di Rivignano apre a malapena la porta. Bilal non ha nemmeno il tempo di spiegare. Il papa ha detto: parrocchie per dormire, dice facendosi capire. «No, no, bisogna andare alla Caritas a Udine. Va bene?», risponde lui. Udine è lontana. Voi non avete... «No, no, no, purtroppo no, son da solo. Grazie, ciao», e richiude la porta sulla faccia. Nella chiesa parrocchiale un grande cartello avverte: «Chiunque vi darà un bicchiere d’acqua non perderà la sua ricompensa».

A Latisana, il paese del ponte sul Tagliamento, la canonica è una bella villa di tre piani rimessa a nuovo. Apre la porta blindata Toni Servillo, l’attore da Oscar. Ma no, è solo un uomo che gli assomiglia come un gemello. È lo scrivano. «Il parroco non c’è. Non c’è nessuno», mette subito in chiaro: «Qua non abbiamo niente da dare. No, no, no», e lo sottolinea muovendo la testa, «non abbiamo da dormire». Il papa ha detto... «Eh, ho capito, ma qui non abbiamo... Io non sono prete. Uno che scrive qua e basta». Posso riprovare con il parroco? «Eh, non so questa sera se viene». Il parroco dorme fuori la sera?

Bilal ritorna la mattina dopo. Riappare il sosia di Toni Servillo. Sbuffa. S’arrabbia: «Non c’è nessuno. Adesso la Caritas. Caritas vicino al campanile». Bilal prova finalmente alla Caritas. Aiutano italiani e stranieri residenti. L’uomo allo sportello parla un po’ inglese. Primo suggerimento su dove portare la famiglia: «In hotel». Poi aggiunge: «Nessuna casa. No dormire qui». Il papa ha detto che era possibile, ripete Bilal. Lui ride: «D’accordo. Il pope speak, il papa parla. Ma dopo la realtà è...». E accompagna gentilmente Bilal all’uscita.

Il viaggio di Fabrizio Gatti

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DAL BRENNERO AL PARADISO
Colle Isarco è l’ultima parrocchia prima del valico del Brennero. Dalla sera alla mattina fa un freddo cane. La grande Pfarrhaus, la canonica, espone in bacheca il poster con papa Francesco: «Le famiglie illuminano il Sinodo», è scritto. La segretaria del parroco don Attila sta uscendo proprio ora. Una donna sulla quarantina, capelli corti, piumino pesante addosso: «Nein, il parroco non è qui», dice in tedesco e non nasconde la scocciatura. Bilal passa al tedesco. E lei: «Non so quando torna il parroco». Un posto per dormire, fa freddo, chiede Bilal. Lei scrolla le spalle: «Sì, ma non si può dormire qui», e fa per allontanarsi. Zwei Kinder, due bambini, supplica Bilal. «Ja», risponde la segretaria di don Attila. Fa ancora spallucce. Volta la schiena e se ne va a piedi. Niente aiuto anche a San Martino in Passiria, dove in chiesa un bel dipinto raffigura il celebre santo che dona il nome al paese e metà del suo mantello al povero seminudo.

Ma Paradiso sì, fa ben sperare. La parrocchia svizzera vicino a Lugano è famosa per le Ferrari parcheggiate in strada. Il parroco è appena uscito dal palazzo del Credit Suisse, accanto alla chiesa. Alla domanda di Bilal, scuote la testa. «Non è possibile qui in Ticino». Ma il papa ha detto... «Sì, il papa l’ha detto, ma qui in Ticino bisogna registrarsi. Noi non possiamo ospitare senza registrazione all’ufficio stranieri. Qui in Svizzera sono severi». Bilal spiega che non vuole registrarsi in Svizzera, ma arrivare in Germania. Il prete allarga le braccia e se ne va in pace. Porte chiuse pure alla chiesa parrocchiale di Chiasso, al confine con l’Italia. Bisogna bussare forte. Il giovane sagrestano apre e risponde che il parroco non si è organizzato. E che comunque occorre l’autorizzazione della polizia. Eccolo poi servire messa all’ora del vespero. Il sacerdote legge dal Vangelo la storia del buon samaritano. Oggi la parabola di Gesù si concluderebbe in commissariato.

SOTTO LA PIOGGIA DI LORETO
Diluvia. E anche nelle Marche comincia male per Bilal. L’anziana crocerossina all’entrata della “Casa accoglienza pellegrini” risponde secca: «Questo non è un albergo». L’immenso santuario della “Santa casa di Loreto”, lì di fronte, ha un’ampia sagrestia. Il frate cappuccino seduto alla scrivania agita il dito indice: «Qua no... Io non posso». E alza le mani in segno di resa. Più tardi nella stessa sagrestia un frate africano suggerisce di cercare domani all’ospedale padre Vincenzo della Caritas: «...Coraggio». È quasi buio. Brillano le vetrine con la Madonna nera a 1.200 euro, i bracciali della fede a 2 euro 50 e i diplomi della benedizione dell’arcivescovo di Loreto, anche quelli a pagamento. Bilal chiede aiuto per la notte al monastero dei salesiani, con vista sull’Adriatico e gigantografia di don Bosco sulla facciata. Chiamano l’economo. «Chiuso. Non c’è nessuno», sostiene lui anche se all’ingresso sembra proprio il contrario. L’economo fa il gesto di smammare. In sedici secondi Bilal viene accompagnato fuori della porta.

Piove ancora la mattina dopo. All’ospedale padre Vincenzo non c’è. Bilal riesce a rintracciarlo alla mensa pubblica sotto la chiesa della Sacra Famiglia. «No, adesso no. Noi non abbiamo dormitori qua», risponde lui. Ma il papa... «Sì, però attraverso le autorità civili. Noi non possiamo. No, non abbiamo rifugiati», ammette il sacerdote: «Per te per dormire lo troviamo, per una notte. Ma per la famiglia bisogna passare tramite la prefettura». Padre Vincenzo è sinceramente dispiaciuto. Vuole che Bilal resti a pranzo, si offre di pagargli il treno. E al suo rifiuto, pretende che accetti un’offerta in denaro: trenta euro, restituiti poi alla Caritas sul conto corrente delle donazioni.

DALLA COSTA AZZURRA ALLA BAVIERA
Abbraccia Bilal e piange il custode della chiesa del Sacro Cuore, vicino alla stazione di Mentone in Francia, quando lo accompagna alla porta. La parrocchia non dà aiuti. Pensavo che con l’appello del papa... «Eh, lo so, ha ragione», lo interrompe l’uomo in italiano, un pensionato che lavora per il parroco come volontario, «ma uno dice una cosa e gli altri non fanno quello che il papa ha detto». La custode della basilica di San Michele Arcangelo assicura invece Bilal che troverà certamente un letto. Ma all’indirizzo indicato, le suore di Rue du Louvre, viene mandato via: «No papier? No documenti? Ah, qui mucho control», sussurra la signora alla reception: «Questo è un monastero aperto alle persone anziane».

Forse a 877 chilometri da Mentone qualche possibilità c’è. Marktl, sul fiume Inn in Germania al confine con l’Austria, è il luogo di nascita di papa Ratzinger. È gemellato con Sotto il Monte, paese di papa Giovanni XXIII, e San Giovanni Rotondo, paese di padre Pio. Un concentrato di santità vorrà pur significar qualcosa. La segretaria del parroco si dà da fare con il telefono. Poi però deve rassegnarsi. Appare finalmente don Keiser, il principale. Ascolta la storia. «È difficile», dice semplicemente e con pochi passi sparisce dietro una porta a vetri di questa lussuosa villa parrocchiale, due piani e svariate stanze. Gli occhi commossi della segretaria e i fotoritratti di papa Ratzinger in corridoio osservano Bilal uscire e incamminarsi verso la stazione. Non resta che tornare a Roma.

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LA BASILICA DEI PAPI
Sembra la giornata buona, martedì 13 ottobre. Dalle navate di Santa Maria Maggiore dirottano Bilal alla chiesa del Sacro Cuore, vicino alla stazione Termini. Dal Sacro Cuore la segretaria lo manda dai gesuiti al Centro Astalli, in via degli Astalli 14. È meglio telefonare prima: «Centro Astalli, pronto?». Vorrei un’informazione per un profugo, la moglie e due bambini che ho incontrato per strada. L’operatore ascolta. Dice che Bilal è un clandestino, lo definisce così. «Se lui vuole andare in Germania, vuol dire che non ha fatto i documenti in Italia. E nel momento in cui presenta i documenti qui», spiega l’operatore, «in Germania non potrà più andarci... Ma non lo troverà mai un posto per dormire senza documentazione». Allora l’alternativa è dormire per strada? La risposta del Centro Astalli è glaciale: «È un fantasma, il suo amico è un fantasma».

Non può finire così. Sotto le navate di Santa Maria Maggiore, Francesco si è inginocchiato a pregare subito dopo la sua elezione a papa. La grande basilica ha accolto negli ultimi anni come arciprete e poi da illustre inquilino Bernard Law, il cardinale accusato negli Stati Uniti di non aver fermato il crimine dei preti pedofili. Indagini della Guardia di finanza hanno attribuito ai frati francescani dell’Immacolata, che gestiscono la sagrestia, 59 fabbricati, 17 terreni, una stazione radio, 5 impianti fotovoltaici, 102 auto, un patrimonio da 30 milioni. Fuori, il pomeriggio sta rovesciando un altro acquazzone. Ci sarà pure un posto. Bilal decide di tornare proprio lì, in Santa Maria Maggiore. Riconosce in sagrestia i due frati dell’Immacolata, uno in piedi l’altro seduto al computer.

Le loro foto sono su Internet, accanto a papa Francesco. Quello seduto invita a rivolgersi al Centro Astalli. Bilal risponde che là non lo prendono. «E io cosa ci posso fare?», interviene sempre lui, infastidito: «Se non ha documenti, noi non lo possiamo accogliere. Assolutamente, eh!». Solo due giorni, fa freddo, poi andiamo in Germania, insiste Bilal, perché papa Francesco ha detto... Il frate francescano, curvo sulla tastiera del computer, sembrava tornato alle sue faccende. Invece non lascia nemmeno finire la domanda. È la sua voce gelida a chiudere la ventiduesima porta sulla faccia di Bilal: «Il papa può dire qualsiasi cosa...».