La scalata francese. I conti in affanno. Lo scontro al vertice tra Patuano ?e Recchi. Così la compagnia telefonica è finita in una spirale di guai

Schermata-2015-11-12-alle-12-31-58-png
Tutto è cominciato nel pieno dell’estate. A sorpresa, il 6 agosto, il finanziere francese Vincent Bolloré viene ricevuto a Palazzo Chigi da Matteo Renzi. Le cronache, all’epoca, raccontano l’incontro come la visita di cortesia del grande investitore internazionale appena sbarcato come primo azionista in Telecom Italia.

Bolloré rassicura Renzi, titolano i giornali, spiegando che il nuovo socio si era presentato come un semplice partner industriale. Come dire che il patron del gruppo multimediale Vivendi, ben conosciuto dalle nostre parti per i suoi trascorsi in Mediobanca e nelle Generali, non aveva intenzione di aumentare la sua quota del 15 per cento e neppure di prendere il comando dell’azienda sostituendone i vertici, cioè il presidente Giuseppe Recchi e l’amministratore delegato Marco Patuano.

Insomma, calma piatta nel mare d’agosto. Nessuna sorpresa in vista. Da allora invece, nell’arco di soli tre mesi, è successo di tutto. E adesso l’ex monopolista dei telefoni nostrani appare più che mai in mezzo al guado. Tutto questo mentre sta per entrare nel vivo una partita miliardaria come quella della banda larga.

Una partita a cui il governo guarda con grande attenzione, non solo per la sua importanza per il sistema Paese, ma anche perché il Tesoro è coinvolto direttamente nel riassetto, visto che tramite la Cassa depositi e prestiti possiede una quota rilevante - il 46 per cento - di Metroweb, da tempo al centro di ipotesi di integrazione proprio con Telecom Italia. Su quest’ultimo argomento, ma anche su diversi altri, la confusione è grande in consiglio d’amministrazione, con Patuano e Recchi che faticano sempre più a nascondere all’esterno le reciproche incomprensioni.
Vincent Bolloré


E anche tra i soci è nebbia fitta, perché Bolloré, con buona pace delle rassicurazioni estive, si è mosso in Borsa fino a raggiungere una quota del 20 per cento e un paio di settimane fa è spuntato dal nulla anche Xavier Niel, l’uomo d’affari francese che nel giro di pochi anni ha creato dal nulla Iliad, il più rampante tra gli operatori di telecomunicazioni d’Oltralpe.

Formalmente Niel non possiede neppure un’azione di Telecom Italia ma, grazie a una complessa architettura di opzioni e altri strumenti borsistici, potrà comprare un primo pacchetto del 5 per cento a giugno dell’anno prossimo, al quale si aggiungerà una quota analoga entro novembre dell’anno successivo, arrivando quindi al 10 per cento circa.


XAVIER NIEL E LA SCOMMESSA DA 200 MILIONI

Non è chiaro quali siano le intenzioni dell’ultimo arrivato, che dichiara di non essersi mosso in appoggio a Bolloré e neppure per ostacolarlo. Pare difficile, però, che Niel abbia puntato una fiche da 200 milioni di euro (questo è il valore degli strumenti finanziari di cui dispone) senza avere un piano d’azione e un’idea precisa su come potrà evolvere la situazione. Un primo sviluppo importante è arrivato poche ore dopo l’annuncio del blitz dell’investitore francese, quando Telecom ha reso noto il piano di conversione delle azioni di risparmio in ordinarie. L’operazione avrà come principale conseguenza la diluizione delle quote dei due soci maggiori: Bolloré scenderà al 14 per cento e il patron di Iliad al 7 per cento circa. La mossa ha reso ancora più incerto lo scenario ma, soprattutto, ha finito per portare allo scoperto i contrasti fra Patuano e Recchi. Il primo non era stato informato del piano, messo a punto dal presidente con dei consulenti esterni. E quando il 5 novembre la proposta è arrivata sul tavolo del consiglio, l’amministratore delegato, che pure aveva più volte prospettato l’opportunità della conversione delle risparmio, non ha potuto fare altro che allinearsi al resto dei consiglieri. La rottura al vertice non potrebbe essere più evidente, a maggior ragione se si pensa che i due manager da tempo sono in disaccordo anche su un’altra partita strategica come l’eventuale integrazione con Metroweb, a cui partecipa con il 46,2 per cento il Fondo strategico italiano controllato da Cassa depositi e prestiti (Cdp), e con il restante 53,8 per cento il Fondo per le infrastrutture (F2i), a sua volta finanziato da istituti di credito, fondazioni bancarie e dalla stessa Cdp.

Metroweb ha portato la fibra ottica in alcune grandi città italiane, a cominciare da Milano, e nel progetto sponsorizzato dal governo dovrebbe integrarsi con Telecom per dare nuovo impulso alla diffusione della banda larga, che vede l’Italia in grave ritardo rispetto ai principali Paesi europei. La partita è aperta da mesi. Già ad aprile un piano per l’unione tra i due operatori era stato respinto dal consiglio di Telecom. La bocciatura era stata letta all’esterno come una resa di Patuano alla linea sostenuta da Recchi, che non ritiene strategica l’alleanza con l’operatore a partecipazione pubblica e non perde occasione per sottolineare che il gruppo da lui presieduto può andare avanti da solo negli investimenti per ampliare la rete in fibra ottica.


QUANTI CONFLITTI NEL BOARD

La porta a un possibile accordo con Metroweb non è stata chiusa del tutto, ma a questo punto negli ambienti finanziari l’interrogativo più diffuso riguarda gli equilibri interni al consiglio. Per quanto tempo potrà resistere al vertice un amministratore delegato per due volte contraddetto o scavalcato dal resto del board? Tra gli analisti non manca chi solleva anche questioni di conflitti d’interessi. Si discute, per esempio, della posizione di Laura Cioli, che a fine ottobre si è insediata al vertice del gruppo editoriale Rcs senza per il momento abbandonare la poltrona nel consiglio di Telecom. Eppure sono evidenti sovrapposizioni e contiguità tra le due aziende, entrambe impegnate nel campo dei media.

Ancora più sorprendente, però, appare l’anomalia di un board in cui il socio principale, cioè Vivendi, non ha neppure un rappresentante. Le nomine infatti risalgono all’aprile del 2014, quando, ormai uscita di scena la spagnola Telefonica, gli amministratori vennero scelti, con la qualifica di indipendenti, dalla holding Telco, controllata da Mediobanca, Intesa e Generali. Il destino di Telco era già segnato: di lì a poco gli azionisti di quest’ultima si sono disimpegnati da Telecom, per la quale all’epoca veniva propagandato un futuro da public company, senza soci di comando.

Il sogno è durato un’estate, perché a settembre è arrivato un peso massimo come Bolloré. Gli amministratori nominati 18 mesi fa, però, sono ancora al loro posto. Il finanziere francese, a dire il vero, può già contare su un amico fidato nel board. Un amico che risponde al nome di Tarak Ben Ammar, l’uomo d’affari tunisino, di casa a Parigi, che siede anche nel consiglio di Vivendi e in quello di Mediobanca. Non c’è da sorprendersi, allora, se il primo azionista non ha fin qui preteso nuovi equilibri al vertice. Tarak, per il momento, basta e avanza. Gli eventi però potrebbero presto prendere una piega diversa. Incombe la scadenza del 15 dicembre, quando l’assemblea dei soci Telecom dovrà esprimersi sulla proposta di conversione delle azioni di risparmio. Bolloré potrebbe approfittarne per chiedere l’aggiornamento dell’ordine del giorno e proporre l’allargamento del board ai suoi rappresentanti. E se il consiglio comincerà davvero a parlare francese finirebbe per indebolirsi la posizione di Patuano, sempre più isolato al vertice.

Chi gli ha parlato di recente spiega che il manager non ha nessuna intenzione di farsi da parte. Oltre che sulla banda larga, il suo futuro si gioca anche in Sudamerica. La controllata Tim Brasil potrebbe diventare una pedina in un’operazione di più vasta portata sponsorizzata da Bolloré e da Telefonica, che l’anno scorso ha rilevato in Brasile, soffiandolo proprio a Telecom Italia l’operatore Gvt, messo in vendita da Vivendi. Forti della loro posizione di primi azionisti, i francesi potrebbero fare pressioni per la cessione di Tim Brasil. Questa soluzione sarebbe difficile da accettare da Patuano, che invece guarda a una qualche forma di accordo con Oi, il più debole finanziariamente tra i gestori locali, da tempo alla ricerca di acquirenti e alleati. A complicare ancora di più la situazione pochi giorni fa è arrivata l’offerta del magnate russo Mikhail Fridman, che finanzierebbe con 4 miliardi di dollari un’integrazione tra Tim Brasil e Oi, prendendo ovviamente il comando della nuova entità.


IL BILANCIO DELUDE ANCORA

Tra tante incognite l’unica certezza è che i bilanci della controllata brasiliana di Telecom peggiorano a vista d’occhio, anche per effetto della crisi del Paese sudamericano. Nei primi nove mesi del 2015 il gruppo ha visto calare del 7 per cento i ricavi, soprattutto per l’effetto Tim Brasil. Perde quota anche la redditività di Telecom Italia, con i margini industriali (l’Ebitda) che hanno perso il 15 per cento rispetto al 2014. La telefonia fissa è in sofferenza da tempo e nel mobile c’è poco da festeggiare. La speranza è che il piccolo aumento dei ricavi nell’ultimo trimestre (più 1 per cento) sia un primo segnale d’inversione di tendenza dopo un lungo periodo di contrazione. Tirando le somme, si arriva a un calo dei profitti del 34 per cento (da 1,4 miliardi a 930 milioni) nei primi nove mesi del 2015. Un bilancio non esaltante. A maggior ragione per un manager come Patuano, al timone di una nave che sembra aver perso la rotta.