Milizie padrone ?e in lotta tra loro. Blogger e attivisti dei diritti umani uccisi. E scarseggia anche l’unica risorsa: il greggio  

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Ci sono volute le bandiere nere dell’Isis sui tetti di Sirte, città natale dell’ex dittatore Muammar Gheddafi (in breve poi ripersa dagli uomini del califfo), e i suoi coltelli infilati nella gola di 21 egiziani copti sulle sponde del Mediterraneo per rimettere la Libia al centro dell’attenzione internazionale. A quattro anni esatti dallo scoppio della rivoluzione.

Non erano bastati gli innumerevoli segnali che si sono succeduti in questi ultimi due anni mentre il Paese scivolava velocemente nel caos e nell’anarchia. A nulla è servita l’uccisione del console americano a Bengasi l’11 settembre del 2012 per mano degli islamisti di Ansar al-Sharia, nel periodo che segnò la completa perdita di controllo sul Paese da parte delle autorità libiche. Non ha fatto clamore la legge imposta con la forza nel 2013 dalle milizie di Misurata per impedire a chiunque avesse avuto un ruolo pubblico sotto Gheddafi di assumere una posizione governativa, premessa certa di una spaccatura del Paese dopo 42 anni di regime unico. [[ge:espresso:plus:articoli:1.200291:article:https://espresso.repubblica.it/plus/articoli/2015/02/23/news/chi-gioca-con-la-libia-1.200291]]

Quasi sotto silenzio stampa (e ovviamente impunito) è passato il barbaro assassinio dell’avvocatessa Salwa Boughiaghis poche ore dopo le elezioni parlamentari dello scorso giugno per mano di quegli islamisti insieme ai quali si era ribellata al regime di Gheddafi.

Poco si è detto della fuga notturna da Tripoli all’estero di Ali Zeidan, ex-primo ministro libico, l’anno scorso dopo essere stato cacciato perché incapace di impedire la confisca di una petroliera da parte di milizie ribelli. Rimangono sconosciute le decine di uccisioni a Derna di blogger, attivisti per i diritti umani, ferventi credenti in una Libia libera che hanno puntellato tutto l’ultimo biennio. E solo adesso ci rendiamo conto che Bengasi è stata trasformata in una tragica Aleppo sul Mediterraneo dai soldati al servizio di un governo legittimo che però non controlla nemmeno la Cirenaica in cui si è rifugiato, e che il governo rivale degli islamisti è stato tanto incerto e diviso da finire con lo spalancare le porte del Paese ai terroristi dell’Isis.

Guidati da un ex prigioniero yemenita detenuto a Guantanamo, nell’ultimo anno i barbuti di Ansar al-Sharia della cittadina di Derna, tradizionalmente roccaforte ultraconservatrice libica, sono passati sotto le insegne nere, reputando il franchising dell’Isis vincente rispetto alla vecchia organizzazione locale. Ora questa cittadina di 100mila abitanti è ufficialmente il quartier generale dell’Isis in Libia. Intanto un manipolo di circa 300 uomini vestiti di nero della brigata Battar, che per anni ha combattuto in Iraq, si è infiltrata a Tripoli e dintorni. Ha cominciato ad organizzare attacchi sporadici come quello, lo scorso mese, all’hotel dei diplomatici, il Corinthia, nel quale hanno perso la vita 10 persone, o quelli, meno noti, nelle scuole elementari dove obbligano le bambine a indossare il velo nero, pena la morte. «Un anno fa prevedere che l’Isis sarebbe potuto arrivare in Libia era impensabile», sottolinea Karim Mezran, ricercatore sul medio Oriente presso l’Atlantic Council di Washington: «Sei mesi fa era inconcepibile che avrebbe potuto sgozzare 21 copti. Ancora sei mesi e la Libia sarà persa».
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La situazione attuale certo non lascia molti margini alla speranza. La produzione petrolifera è scesa a 300mila barili dal milione all’indomani della rivoluzione (erano1,7 milioni durante gli anni di Gheddafi). Dunque, non ci sono più soldi: la capitale e le città principali sono senza luce per 13-14 ore al giorno, le periferie non ce l’hanno per giorni; acqua e medicine scarseggiano; 500mila persone hanno perso la casa nei combattimenti. Su cinque milioni di libici, oltre un milione si è trasferito in Tunisia, un altro milione in Egitto e chi ha potuto in Libano. Hosni Bej, un commerciante di Tripoli che da anni fa la spola tra Italia e Libia per lavoro, da tre mesi è fisso a Milano: «Un po’ di commercio continua ancora ma la situazione peggiora di giorno in giorno e nessuno può più considerarsi al sicuro. Ormai sto facendo venir via tutti».

Gli analisti stimano che le milizie combattenti complessivamente non superino le 20-30mila unità. Ma la lotta è senza quartiere. Il governo di Abdullah al Thani risiede a Badia, non lontano da Tobruk, cittadina della Cirenaica, dove si trova il suo parlamento. È appoggiato dalle milizie occidentali di Zintan, storicamente nemiche di quelle di Misurata, e dagli egiziani, a loro volta alleati di francesi e russi.

Il suo uomo forte è il generale 72enne Khalifa Haftar, un personaggio ambiguo: nato ad Ajdabia, nel sud della Cirenaica, generale di Gheddafi, combatté per suo conto in Chad, fu catturato nel 1987, Gheddafi lo abbandonò al suo destino e lui si mise a complottare per rovesciare il regime libico finché nel 1990 fu prelevato dagli americani e portato a Washington dove è rimasto per 20 anni prima di rientrare come autoproclamato “salvatore della Patria” contro la furia jihadista. Gli islamisti lo vedono come fumo negli occhi, sopravvissuto di un regime che hanno cancellato nel sangue. Ma anche tra gli uomini di governo non è più amato come qualche mese fa perché le sue gesta di comandante in capo fortemente coinvolto in politica disegnano il ritratto di un novello dittatore. «Non è ancora chiaro se sia un Cincinnato al servizio della causa dei liberali oppure stia tramando per diventare l’al-Sisi della Libia», spiega Francesco Strazzari, ricercatore del Consorzio per la ricerca sul terrorismo e il crimine internazionale presso l’Istituto norvegese di Affari internazionali.
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Dall’altra parte, a Tripoli, una coalizione di islamisti chiamata “Alba della Libia” ha fondato un suo governo. Il leader politico è Omar al-Hassi mentre il generale in capo è Abdelhakim Belaj, al servizio degli islamisti fin dal 2012 con alterni risultati e, a differenza di Haftar, costretto a condividere la scena con capi di varie milizie, in primis gli uomini forti della ricca Misurata che, islamisti o meno, il comando delle operazioni militari e il controllo sul proprio territorio non sono disposti a cederli a nessuno. Da queste parti le armi e i soldi arrivano non solo da un contrabbando scatenato di petrolio ai confini con la Tunisia ma anche dagli sponsor esteri come il Qatar e la Turchia, ancora oggi grande sostenitrice dei Fratelli musulmani in ogni parte del Medio Oriente. Sebbene “Alba” faccia sentire la sua voce sulla parte maggiore del territorio libico, ha sempre negato la presenza dell’Isis in Patria e non è ancora chiaro quale siano i rapporti con il gruppo jihadista.

Se infatti “Alba della Libia” ha condannato l’intervento aereo egiziano contro la base Isis di Derna, bollandolo come violazione non autorizzata della sovranità nazionale, non ha proferito parola sullo sgozzamento dei 21 cristiani copti egiziani da parte dei terroristi neri. «Difficile però che i misuratini e i libici siano disposti a sottomettersi volontariamente a un califfato», sottolinea Mezran.

Certo è che le tensioni tra milizie rivali non mancano nemmeno in Tripolitania. A provare a sfruttarle è il Capo della missione libica delle Nazioni Unite, il diplomatico spagnolo Bernardino Leon, che da settimane sta tentando di riunire intorno ad uno stesso tavolo gli islamisti di Tripoli e i liberali di Tobruk offrendo posizioni in un futuro governo di coalizione nazionale - la creazione del quale è l’obiettivo dell’offensiva diplomatica - e minacciando sanzioni europee ad personam contro coloro che non vorranno parteciparvi. «Il centro della trattativa è stato perfino spostato da Ginevra a Ghadamez, un’antica città al confine con l’Algeria cara ai conservatori libici, nello sforzo di conquistare anche con gesti simbolici le parti meno ideologiche degli islamisti», sottolinea Francesco Strazzari.

Ma il tempo stringe. L’Isis arruola sempre più jihadisti delusi dalle filiali magrebine di al-Qaida facendosi largo con propaganda mediatica e grandissima ferocia. E la soluzione sembra essere sempre meno in mano libiche. «A questo punto un accordo tra soli libici è fantascienza», prevede Mezran: «Un intervento estero a sostegno di un governo di coalizione nazionale potrebbe invece avere l’approvazione delle milizie». Il pericolo però è che la fretta induca gli occidentali a «cadere nella trappola di al-Sisi», il dittatore egiziano intervenuto ufficialmente nel conflitto (mal visto dalla rivale Algeria), e sostenere soltanto la parte più filo-europea. «Ma senza gli islamisti, così come senza alcuni ex gheddafiani non se ne esce», continua Mezran. Urge una grande coalizione politica coadiuvata da una grande forza internazionale. L’alternativa non è chiara a nessuno ma spaventa tutti. Dentro e fuori la Libia. Soprattutto noi italiani, loro vicini di casa.