Un esempio eclatante della posta in gioco nel pezzo ancora mancante del jobs act, ancora in mano a Poletti e al suo staff di giuristi: i controlli a distanza dei lavoratori. Che lo Statuto dei lavoratori vietava, pensando a un mondo in cui il pericolo maggiore poteva venire da una telecamera puntata sulla postazione dell’operaio o dell’impiegato. E che il governo si appresta a rivoluzionare, in un mondo nel quale la gran parte dei lavoratori entra – virtualmente – sotto controllo nel momento stesso in cui passa un badge all’ingresso, fa il “log in” al computer o al tablet aziendale, o quando sale sull’auto di servizio, seguita passo passo dal satellite.
Le macchine-spia. Ufficialmente, non c’è niente di pronto. Anzi è molto probabile che il decreto delegato sulla materia dei tecnocontrolli sia tra gli ultimi a vedere la luce, visto che al ministero per ora dicono che non c’è “nessuna elaborazione definita”. Ma le bozze che girano tra i sindacalisti, e li preoccupano, vanno tutte in una direzione: far cadere la tutela dell’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori ogni qual volta il lavoro si eserciti su una piattaforma informatica. In quell’articolo, si ammettono i controlli a distanza per motivi organizzativi o di sicurezza, ma con un filtro: l’azienda deve passare per un accordo con i sindacati interni o, in assenza, chiedere l’ok agli ispettori del lavoro.
Cesare Damiano, presidente della Commissione lavoro della Camera, già alza le barricate all’ipotesi di “saltare” i sindacati: “Spero proprio di no, sarebbe un’interpretazione regressiva del testo della delega al governo”. La quale, aggiunge Damiano, parla chiaro: si deve rivedere lo Statuto e aggiornarlo alle nuove tecnologie, ma controllando le macchine e non i lavoratori: “Escluderei una sorta di Grande Fratello sulle prestazioni lavorative”. Ma dai posti di lavoro in prima linea con l’innovazione tecnologica tutti raccontano che distinguere tra il lavoratore e la sua macchina è pressoché impossibile.
“E’ il tuo strumento di lavoro che, in pratica, ti fa da telecamera. Appena entri nel sistema, ogni applicazione che usi registra il tuo log”, dice Francesco Fiaccadori, delegato delle Rsu di Ibm Italia. A Ibm Italia un accordo sindacale sull’uso di questi dati ce l’hanno: “l’azienda ci fornisce un inventario di tutte le applicazioni, specificando i dati che ci sono dentro. E ogni volta che deve accedere, per un controllo o altro, a questi dati, chiede l’autorizzazione a una commissione, che ha dentro anche i rappresentanti dei lavoratori”. Meccanismo complicato, e da aggiornare di continuo. Ma il filtro dei sindacati interni è l’unica difesa possibile, dice Fiaccadori, in un contesto in cui “tecnicamente l’impresa può registrare tutta l’attività di un dipendente”: e il fatto che non possa usare queste informazioni, per lo meno esplicitamente, non vuol dire che non le abbia.
Il Gps ti segue. Quello dell’informatica non è certo l’unico settore già travolto dall’argomento. Che riguarda, per esempio, il mondo delle imprese che lavorano nell’impiantistica: tutti i tecnici che vanno in giro a installare, aggiustare, revisionare impianti, dotati di auto di servizio e (spesso) un dispositivo mobile. Già da anni la Sirti ha chiesto l’installazione di un Gps sulle macchine dei dipendenti, per geolocalizzarli, affermando che così poteva avere tariffe migliori con l’assicurazione: i sindacati hanno rifiutato, ma poi gli ispettori del lavoro hanno dato ragione all’azienda, consentendo il Gps ma escludendone l’uso per controllare i lavoratori e prendere provvedimenti disciplinari. Così, il Gps si attiva con una doppia password, una dell’azienda e una dei lavoratori.
“La pressione è molto forte, per riempire tutti gli spazi e aumentare il numero degli interventi che si possono fare”, racconta Roberta Turi, che segue questi settori dalla segreteria nazionale della Fiom. “Cosa cambierà? Quel che temiamo è che vogliono consentire alle imprese delle pratiche che adesso richiedono il consenso dei lavoratori”, taglia corto Marcello Scipioni, segretario della Fiom di Milano. “La tecnologia consente tutto, noi proviamo a tracciare una linea, su cosa non è consentito fare”, aggiunge Massimo Cestaro, segretario della Cgil delle telecomunicazioni: caduto questo paletto, aggiunge, resterebbe solo il problema della tutela della privacy: “un ostacolo non piccolo, comunque: se ancora non è arrivato il decreto è perché la materia è complicata, e per i vincoli sulla privacy”. Ma lo stesso Garante della Privacy sembra possibilista: «sono consapevole che le vecchie procedure di garanzia vanno ripensate, per essere meno farraginose, più agili ma comunque efficaci nel tutelare i vari interessi in gioco», dice il presidente Antonello Soro. «L'importante è che la tecnologia, nel suo costante progresso, sia resa funzionale ai diritti coinvolti nel processo lavorativo: i diritti alla proprietà e all'iniziativa economica da un lato; il diritto alla protezione dei dati personali dei lavoratori, dall'altro», avvisa però Soro, specificando che secondo la Corte di Giustizia europea «il diritto alla privacy prevale sugli interessi economici».
Ribalta la prospettiva Agostino Santoni, presidente di Assinform – l’associazione di Confindustria che rappresenta le aziende informatiche. Secondo il quale è stato sbagliato persino impostare il discorso col titolo “controlli a distanza”, termine che ha un significato negativo: è questo che ha spaventato tutti, anche il parlamento, dice. Meglio parlare, a suo avviso, di “sistemi elettronici di coordinamento a distanza” e la questione sarebbe stata posta nel giusto modo: ossia, come organizzare il lavoro “nella fabbrica 2.0 che non ha muri né orari”. Insomma, “non dobbiamo aver paura del digitale e guardare ad esso come il Grande Fratello”, ma affrontare il tema in una dimensione “attiva e positiva”. «Un aspetto positivo potrebbe essere anche lo sviluppo del telelavoro, finora frenato in Italia anche dall’impossibilità di controllare il dipendente fuori ufficio», aggiunge Guido Scorza, avvocato esperto di privacy e temi digitali. «Probabilmente alla fine del percorso normativo arriveremo a una via di mezzo tra quello che c’è ora e quello che desiderano le aziende; tra l’assoluta impossibilità di controllare il lavoratore con la tecnologia e un monitoraggio minuzioso», continua Scorza.
Le nuove frontiere Per capire che cosa potrà essere questa “via di mezzo” si può guardare a due situazioni già presenti: il controllo tecnologico che avviene in Italia e quello che è comune ormai negli Stati Uniti, frontiera di questo fenomeno. «Già oggi in alcuni settori i dipendenti sono oggetto di monitoraggi molto dettagliati.
Soprattutto nella logistica, dove grazie alla tracciatura dei colli e la geolocalizzazione, è possibile sapere non solo gli spostamenti dei veicoli (e del relativo autista), ma anche dell’operatore che effettua la consegna», spiega Andrea Rigoni, che è consulente informatico sui temi di policy informatiche per molti Governi (lo è stato anche per l’Italia). Vale per chi consegna farmaci o pacchi; per chi ripara macchine del caffè, per le guardie giurate sui camioncini eccetera. Le leggi attuali però consentono solo un uso aggregato di tutti i dati così raccolti, per migliorare la produttività generale. Le aziende non possono utilizzarli per monitorare il singolo dipendente.
I progressi tecnologici recenti hanno però complicato la questione. In passato l’azienda poteva effettivamente non essere in grado di associare certi dati con un singolo dipendente (chi ha fatto cosa, quando e dove). Adesso la tecnologia permette di saperlo con facilità: primo perché gli strumenti (smartphone in primis) sono sempre personali; secondo perché sono gestiti in una rete aziendale dove potenti software macinano tutti i dati e possono aiutare i responsabili a trarre dettagliate conclusioni sui comportamenti di ciascuno. Le aziende devono insomma auto-limitare la propria potenziale onniscienza, per rispettare le leggi. Non negli Stati Uniti, dove non sono nemmeno obbligate ad avvisare il dipendente se lo stanno tracciando (con l’eccezione del Connecticut e del Delaware). Così un supervisore di carpenteria è stato licenziato a New York, nel 2009, perché dal gps del cellulare risultava che lasciava troppo presto il lavoro. E ormai sono banali i software che, installati sui server dell’azienda, rilevano se il dipendente ha violato qualche regola nell’uso della posta, nella navigazione internet.
Ma le nuove frontiere del monitoraggio made in Usa utilizzano badge sofisticati, dotati di antenne e sensori, per sapere esattamente gli spostamenti del lavoratore. Si stanno diffondendo quelli della startup Sociometric Solutions, usati per esempio nei call center di Bank of America. Le aziende hanno scoperto così che i dipendenti più produttivi erano quelli più propensi a incontri faccia a faccia con i colleghi. Alcune hanno di conseguenza ampliato l’area caffè (non tutti i monitoraggi vengono per nuocere). Osa ancora di più un badge inventato da Hitachi nel 2014: non solo traccia spostamenti e interazioni personali del lavoratore (chi ha incontrato e per quanto tempo); ma anche può capire il suo livello di entusiasmo durante le riunioni (in base ai movimenti del corpo rilevati dai sensori). Risale già al 2008 un brevetto Microsoft per un software che tra l’altro può tracciare pressione del sangue ed espressioni facciali dei lavoratori, grazie a un collegamento alle videocamere internet. Quelle più evolute già ora sono dotate di software di riconoscimento facciale. Vita dura per chi si mostra sempre depresso o arrabbiato… o ha la pressione alta per via di un cattivo stile di vita. E con quali effetti sul lavoro? Uno studio dell’università di St.Louis, del 2013, dà una prima risposta. Ha analizzato le conseguenze di un software installato in 392 ristoranti americani per rilevare furti da parte dei dipendenti. Si tratta di un complesso algoritmo che analizza i dati dei movimenti di denaro in cassa. Ebbene, l’effetto principale non è stato il calo dei furti ma l’aumento dei ricavi dei ristoranti (del 7 per cento): i ricercatori ritengono che i dipendenti, sentendosi sotto osservazione, si siano impegnati di più a spingere i clienti a comprare una bevanda extra o un dolce.
A un’azienda può anche far piacere, ma lo studio dimostra che «la sorveglianza tecnologica non influisce solo sulle dinamiche lavorative. Ma anche sulle nostre psicologie, relazioni e, in ultima analisi, sulla nostra identità», dice Raymond Wacks, professore emerito di legge all’università di Hong Kong e tra i massimi esperti mondiali di privacy online (ha scritto da ultimo nel 2013 Privacy and Media Freedom per Oxford University Press). «Diventiamo meno liberi, meno spontanei e questo nel lungo termine danneggia la nostra stessa produttività», ritiene Wacks. «Non ci sono prove che il monitoraggio tecnologico aumenti l’efficienza del lavoro», aggiunge Lee Tien, giurista di Electronic Frontier Foundation, storica associazione per la tutela dei diritti nell’era digitale.
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"Attenzione, serve un compromesso" / Parla il giuslavorista Umberto Romagnoli
“Un conto è controllare il risultato, un altro è tener sott’occhio sempre e costantemente una persona”. Umberto Romagnoli, giurista vicino al sindacato (è tra i firmatari della lettera dei Giuristi democratici nella quale si chiede a Mattarella di non controfirmare il decreto delegato del jobs act), suona l’allarme sulla revisione dei controlli a distanza. Difendendo il “vecchio” articolo 4 dello Statuto dei lavoratori.
Cosa teme della nuova disciplina dei controlli a distanza?
Non è ancora chiaro in che direzione vogliano cambiare le norme. Ma nello Statuto si affermava un principio semplice: non si può controllare in maniera sistematica e continuativa una persona, a sua insaputa, e a distanza. Nessuno può essere sorvegliato per tutto il periodo in cui lavora, è una compressione della sua personalità e una violazione della sua privacy; inammissibile anche dal punto di vista costituzionale.
Come affrontare le nuove possibilità che si aprono con l’innovazione tecnologica?
Cambiano gli strumenti ma non il bene da tutelare, che è la dignità e libertà dell’individuo. Del resto, in questi anni l’articolo 4 dello Statuto ha retto bene alle innovazioni. Infatti non pone un divieto assoluto, ma impedisce la possibilità perpetua e continuativa del controllo. Forme di controllo a distanza possono esserci, ma devono essere negoziate. In modo intelligente, la norma imponeva la ricerca del compromesso, sul posto di lavoro.
Non fernate la tecnologia / Parla il giuslavorista Michele Tiraboschi
“Sul lavoro vale lo stesso dilemma che si pone a livello di Paese, nell’uso dei dati: più privacy o più sicurezza?”. Michele Tiraboschi, giuslavorista e direttore del centro studi Adapt-Marco Biagi, è molto deluso dall’assenza, nel primo decreto delegato sul jobs act, della questione dei controlli a distanza. “Questione spinosa, quindi messa da parte. Come lo smart workin,. Di fatto, hanno rinviato tutto ciò che ha a che fare con l’innovazione tecnologica”.
In ogni caso, entro giugno la nuova normativa dovrà arrivare. Si va verso una liberalizzazione dei controlli a distanza?
La delega è molto generica, insignificante perché non specifica niente; è difficile dire cosa il governo farà. Questa parte della riforma è cruciale ma di fatto ancora non è stata toccata. Allo stesso modo, hanno riordinato tutte le tipologie di contratti ma si sono dimenticati del telelavoro.
In che direzione si dovrebbe andare?
Capire che le tecnologie hanno cambiato il modo di lavorare, che il lavoro non si svolge più o prevalentemente nei posti di proprietà dell’impresa. Questo rompe il mondo del lavoro subordinato, e bisogna prenderne atto. Le tecnologie consentono di tracciare il lavoro: questo consente di aumentare la produttività e l’efficienza, ma sono dati molto invasivi, che vanno nell’intimo della vita privata.
Pensa che sia giusto “saltare” il controllo del sindacato?
È evidente che lasciare questi dati solo nella disponibilità dell’azienda è rischioso, serve un compromesso. E sarebbe sensato affidarlo alle parti sociali: ma questo presuppone un sindacato intelligente, che capisca che in alcuni casi è opportuno conoscere questi dati, che non demonizzi ogni richiesta in tal senso.