Basta tergiversare vagheggiando altre celle. Servono liberazione anticipata e misure alternative

Non c’è più tempo: bisogna svuotare le carceri e dire stop a nuovi reati

Condannati dall’Europa, anche di fronte alla vergogna di classifiche che ci relegano in fondo ai Paesi civili, opponiamo solo un fiero tergiversare di fronte a quella che definiamo “emergenza carceri”. Abituati a considerare le celle delle discariche in cui nascondere ciò che riteniamo rifiuti sociali, seppelliamo in loculi da sepolti vivi, non solo l’umanità, ma il nostro stesso interesse. Perché il carcere che incattivisce produce recidiva. 

 

Il sovraffollamento, con punte ben oltre il 150 per cento, si traduce in 16 mila reclusi in più della capienza, cui fanno da contrappeso 18mila operatori in meno. Non solo poliziotti, ma anche educatori e psicologi. Ai suicidi, 37 detenuti dall’inizio dell’anno, devono aggiungersi tre addetti agli istituti. Quelle che il governo ama definire rivolte, spesso sono proteste sacrosante – non tutte violente, ma ora sanzionate ugualmente – per elementari diritti. Dall’aria – non l’uscita in cortile, ma l’ossigeno in spazi per i quali concorre a determinare lo spazio vitale anche il computo della branda – alla doccia. Da un vitto decente a un sopravvitto trasparente e a prezzi di mercato. Dal lavoro, non l’occupazione spiccia, ma la dignità di un impiego, retribuito, coerente con un barlume di percorso di reinserimento. Ci sono ragioni tanto aritmetiche quanto profondamente politiche nel modo in cui si affronta “l’emergenza”. Se aumenti i reati, imbottisci il codice di nuove fattispecie, punisci i tossicodipendenti, usi le manette per dare la caccia a chi fugge da guerra e miserie o semplicemente si sposta, perché l’uomo lo fa, aumenti il numero dei carcerati. Se, parafrasando papa Prevost, di fronte all’emarginazione bastoni l’emarginato, i numeri schizzano all’insù. Così come quelli degli istituti minorili, unico risultato tangibile del decreto Caivano. Il capo dello Stato è dovuto intervenire due volte in quattro mesi sul tema del sovraffollamento. 

 

A marzo, nel messaggio per il 208° della fondazione del Corpo della Polizia penitenziaria. E a fine giugno, per San Basilide, ricevendo il capo del Dap Stefano Carmine De Michele, scelto dopo lo scivolone del duo Nordio-Del Mastro su Lina Di Domenico. In mezzo, la sparata leghista di rimettere mano al reato di tortura, sperando di lisciare il pelo alla frangia più retriva dei poliziotti. Tutto fuorché qualcosa di concreto. Neppure le vagheggiate nuove carceri, con l’edilizia penitenziaria commissariata. Di amnistia e indulto, respinti sdegnosamente perché non in linea con l’immagine muscolare di un governo d’ordine, neanche a parlarne. Né l’apertura del presidente del Senato Ignazio La Russa al ddl di Roberto Giachetti sulla liberazione anticipata sembra destinata ad avere seguito. Ma delle due l’una: o i colpi di spugna – l’ultima amnistia è del 1990, l’indulto del 2006 – ovvero liberazione anticipata e misure alternative (attualmente ne godono 97mila persone). Si calcola che ridurrebbe di almeno 30mila il numero dei ristretti. Più che con un indulto. Ma occorrono fatti e non frasi a effetto a beneficio della propaganda per coprire il vuoto. 

 

Altrimenti i detenuti con problemi psichiatrici non troveranno Rems e i tossicodipendenti comunità. E quel bimbo di un mese in cella a Pagliarelli, Palermo, con la madre, sarebbe ancora lì. Semplicemente perché non c’era altro. Non un Icam che nel campionario degli inconcludenti acronimi italiani corrisponde a istituto per la custodia attenuata delle detenute madri. Il più vicino è in Campania. Una cella, invece, magari pigiando un po’, la si trova sempre.

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