In crisi di autorevolezza e influenza la prima. ?Le altre scosse da scandali e a rischio astensione di massa. E la società fatica a trovare chi la rappresenti

In crisi di autorevolezza, credibilità, rappresentanza. E pure costosa. Non per le casse pubbliche, per fortuna. Ma per il portafoglio degli imprenditori associati. “Potere forte” per antonomasia, Confindustria ha di pesante, ormai da anni, soltanto il suo bilancio: 500 milioni all’anno di costi, coperti con soldi privati ma non per questo cifra meno impressionante.

Come funziona l’organizzazione degli industriali ce lo racconta Stefano Livadiotti. L’influenza di Confindustria sulla politica nazionale è andata calando di pari passo alla sua capacità di offrire visioni di crescita e di sviluppo del paese. Gli anni del fiancheggiamento entusiasta verso il berlusconismo trionfante, interpretati da Antonio D’Amato nei primi anni 2000, si sono poi conclusi con l’irrilevanza attuale. Anche quest’anno Matteo Renzi ha fatto sapere che diserterà l’invito del presidente Squinzi: ha altro da fare. Appartengono a un’altra era geologica quei convegni confindustriali seguiti con cura pignola da stampa e tv per misurare la quantità di applausi dedicati al premier in carica e ai ministri al seguito: un rito obbligatorio per chiunque avesse ambizioni degne di nota. Il potere infatti legittimava se stesso, in uno scambio di interessi. Oggi Confindustria, complice anche la lunga crisi economica, a stento riesce a tenere insieme i propri aderenti.

Tra le critiche mosse a Renzi, ricorre anche quella secondo cui il premier-segretario tende a disarticolare i cosiddetti corpi intermedi, organizzazioni o istituzioni che siano, deputati a svolgere un ruolo di rappresentanza e di ricomposizione di interessi diffusi presenti nella società. La Confindustria è uno di questi corpi intermedi. Così come lo sono i sindacati dei lavoratori. Tuttavia la facilità con cui Renzi procede nello scavalcarli e delegittimarli è favorita dalla crisi di identità di questi stessi organismi. Che è ben precedente all’ascesa a Palazzo Chigi del sindaco di Firenze. Renzi, con la spregiudicatezza che lo contraddistingue, ne prende semplicemente atto e ratifica l’abolizione di una liturgia senza più significato. Così il “sindacato dei padroni” finisce per essere ignorato alla stregua dello storico rivale, il sindacato dei lavoratori. È il leaderismo politico che ha bisogno di ridurre le distanze tra l’eletto e gli elettori. Una democrazia accorciata, potremmo definirla. Con le incognite di una prassi finora sconosciuta. Tuttavia il renzismo non è la causa di questo ribaltamento dei rapporti di forza all’interno delle pratiche repubblicane, bensì l’effetto di un trentennio di immobilismo in tutti i campi.

Ulteriore esempio della degenerazione della rappresentanza viene dalle Regioni. Se la Confindustria è un organismo privato, queste sono espressione della volontà popolare. Nel tempo le Regioni invece si sono rivelato il distillato di una democrazia sfibrata dalla cattiva politica. Da enti di programmazione e di indirizzo, dunque “leggeri” - come era nelle intenzioni dei costituenti - si sono trasformate in macchine burocratiche onnivore, sempre più costose, invasive: Stati nello Stato, pessima interpretazione di un federalismo inconcludente e mazzettaro.

Alle Regioni dedichiamo la copertina di questo numero con i servizi di Bruno Manfellotto, Marco Damilano e Roberto Di Caro, in vista delle elezioni di domenica 31 maggio in sette di esse (Veneto, Liguria, Toscana, Umbria, Marche, Campania e Puglia). Ho già espresso (sul n. 18) la mia opinione sulla necessità di rifondare e ripensare le loro funzioni così come si sono configurate dopo la sciagurata riforma costituzionale del 2001, governi D’Alema e Amato. Perché hanno assunto la consistenza di una inutile sovrastruttura (anzi 20 tanti quanti sono gli enti regionali ordinari e speciali in Italia) delegittimata dalla sua inefficienza. Tutte le previsioni indicano una bassa affluenza alle urne, complice ancor più il ponte del 2 giugno, festa della Repubblica. È come se l’abrogazione delle Regioni venisse di fatto sancita dall’astensione di massa. Irrilevante dal punto di vista costituzionale, perché - va da sé - esisteranno ugualmente anche se dovesse votare meno della metà degli elettori. Ma indicativo dello spirito del tempo. Ancora una democrazia accorciata, stavolta per volontà popolare. Che inquietante modo di festeggiare l’anniversario della Repubblica…

Twitter @VicinanzaL

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