La legge che prevede un posto di lavoro nel pubblico per chi ha aiutato a sconfiggere la criminalità è rimasta inapplicata. Tranne in Sicilia. Dove però chi è stato preso deve essere trasferito a Roma e rischia di diventare un bersaglio
Assumere i testimoni di giustizia nella pubblica amministrazione doveva essere la
legge spot contro le mafie, per dimostrare che denunciare conviene. Ora quella norma rischia di trasformarsi in un boomerang. A livello nazionale l’applicazione del testo è pura utopia, nonostante le buone intenzioni del ministro Alfano: “Un provvedimento molto atteso che va nella direzione di assicurare a chi ha offerto un contributo essenziale alla giustizia il necessario e doveroso riconoscimento dello Stato”. Era il 18 dicembre del 2014, da allora è tutto fermo. Quella procedura, applicata a livello regionale, ha prodotto guai peggiori.
Ad assumere i testimoni di giustizia in Sicilia ci ha provato, e c’è persino riuscito, il governatore
Rosario Crocetta. Grazie a una piccola posta in bilancio è stato creato lo spazio per assumere 47 testimoni di giustizia. Per procedere all’ingresso in ruolo dei nuovi dipendenti, la Sicilia non ha fatto altro che seguire
sic et simpliciter le direttive del Viminale e del Servizio centrale di Protezione. I primi dieci contratti sono stati firmati il 23 maggio di quest’anno, nel giorno dell’anniversario della Strage di Capaci. Alla vigilia del primo giorno di lavoro, però, i testimoni hanno scoperto che nessuno di loro potrà tornare in Sicilia. La ragione? Per il Servizio centrale di protezione esistono “motivi di sicurezza” tali da escludere il ritorno.
All’amministrazione siciliana è stato imposto perentoriamente di
distaccare quel personale nell’ufficio di rappresentanza a Roma. Nei fatti è una sconfitta che stravolge il senso della legge che doveva dimostrare la vittoria dello Stato. Nessuno di quei testimoni potrà ritornare a lavorare nella terra dove ha denunciato le cosche perché il rischio per le loro vite è ancora altissimo.
Tra quei 47 testimoni di giustizia, pronti a mettere piede nei ranghi della pubblica amministrazione, ci sono uomini e donne che vivono da oltre venti anni sotto scorta e in alcuni casi hanno dovuto rinunciare alla propria identità per vivere sotto copertura con un nuovo nome. Tra loro c’è chi ha testimoniato nei processi per le stragi mafiose e ha denunciato il gotha di
Cosa Nostra e chi ha contribuito al lavoro di magistrati e investigatori per smantellare il racket delle estorsioni e del pizzo. Metterli tutti assieme, nel piccolo ufficio romano della Sicilia, non solo mette a rischio le nuove identità, ma trasforma quella sede in un
bersaglio primario per la vendetta delle cosche mafiose. Quell’oasi poco ecologica dell’antimafia non piace ai testimoni di giustizia.
Nel mettersi per l’ennesima volta a disposizione degli ordini impartiti dallo Stato, qualcuno di loro ha fatto notare i rischi che si corrono. Con una lettera inviata alle Autorità, dal ministro Alfano al presidente della Commissione Antimafia
Rosy Bindi, un testimone di giustizia spiega le sue paure: “Sarò completamente buttato allo sbaraglio, senza tutela alcuna e si metterà a rischio non solo la mia incolumità, ma il cambio di generalità. Chiedo di essere trasferito a Palermo, rinuncio ad eventuali tutele, scelgo di mia spontanea volontà di morire in terra di Sicilia”. Il testimone – la cui identità l’Espresso mantiene riservata – sottolinea la pericolosità dell’aver concentrato tutti i neo assunti in un'unica sede e definisce quel luogo di lavoro “una camera mortuaria dove stanno stipati tutti i testimoni” che “adesso dopo aver dato la loro vita, per amore della propria terra, della verità e della giustizia, vengono confinati in un ufficio, bersaglio certo e conosciuto”.