Da Gela a Napoli, nel nostro Sud i baby killer sono l'ultima leva criminale dei clan. La manovalanza per rapine, estorsioni, spaccio di droga. E sono pronti a tutto, anche a uccidere. Viaggio nel mondo dei minorenni a mano armata (Foto di Salvatore Esposito)
Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo, che prometteva di riuscire un fior di birbone». Nel 1878 Giovanni Verga cominciava così il suo racconto sui "carusi", mandati a morire nelle miniere siciliane. Oggi nella stessa zona dell'isola altri "carusi" vengono mandati al massacro dalle organizzazioni criminali: le microspie li hanno registrati mentre provano Beretta e Kalashnikov, commentando con competenza le caratteristiche delle loro armi. Sono l'ultima leva delle cosche: minorenni arruolati sempre più spesso dai padrini di Gela, del Nisseno, di Secondigliano e del Gargano. Finora i clan li avevano relegati a compiti secondari: postini della droga e vedette dei covi. Negli ultimi anni invece stanno diventando bambini soldato: hanno la pistola, rapinano, incassano il pizzo, difendono il territorio. E sono pronti a uccidere.
Un filmato agghiacciante, ripreso tre mesi fa dalle telecamere nascoste a Scampia, mostra i guardiani degli "Scissionisti" mentre impugnano revolver troppo grandi per le loro mani acerbe. In Puglia ci sono squadroni di sicari disposti a tutto: «Sono kamikaze! Ragazzini che... che non ci pensano», si vantava uno dei capi dei Telegrafo, storica famiglia barese. Il boss voleva gettarli allo sbaraglio per sparare contro la pattuglia di carabinieri che aveva scoperto il nascondiglio dell'arsenale del clan. Nel Gargano si insegna ai sedicenni a fare fuoco «sugli sbirri». A Napoli invece ci sono batterie di guaglioni che spianano le armi per prendere Rolex, portafogli e iPhone: alcuni sono stati accusati per l'omicidio di un vigilante, a cui hanno tolto il revolver. Non si tratta di cani sciolti: portano rispetto a chi comanda e sono "a disposizione" della camorra. Quelli che osano alzare la testa finiscono male: Ciro Fontanarossa, 17 anni, è stato assassinato con sette pallottole nel centro di Napoli, un ragazzo ucciso come un boss. E il problema continua a crescere in ogni regione, senza che la giustizia minorile abbia organici e risorse per la repressione dei reati, mentre la questione richiederebbe una mobilitazione di tutte le istituzioni. Nei primi tre mesi di quest'anno 1.094 under diciotto sono stati fermati o arrestati, finendo nei centri di prima accoglienza, nelle comunità o nei penitenziari minorili: oltre il 60 per cento è di nazionalità italiana. Sono accusati soprattutto di furti, rapine, estorsioni e spaccio. Ma anche di omicidio volontario.
BAMBINI PERDUTI. Nella fascia di Sicilia che va da Caltanissetta a Gela la mafia arruola minorenni da almeno due decenni. È l'onda lunga di quella guerra che fece nascere un'organizzazione rivale di Cosa nostra, la Stidda, ispirata ai modelli delle gang sudamericane. Lì la cultura dell'omertà, del sopruso e del rifiuto dello Stato è più profonda: è facile per i bambini crescere secondo i codici mafiosi. E fare troppo in fretta il salto di qualità, stringendo un'arma in pugno. Sono la manovalanza perfetta, che non attira l'attenzione delle polizie ed è disposta a tutto pur di conquistare la stima dei "capisquadra".
Se vengono catturati, i minorenni se la cavano con la comunità o pene di gran lunga inferiori a quelle degli adulti. Roberto Scarpinato, che fino allo scorso mese è stato procuratore generale a Caltanissetta, ha lanciato l'allarme durante l'inaugurazione dell'anno giudiziario: «Mentre a causa della mancanza di risorse centinaia di giovani vengono abbandonati a se stessi, la criminalità organizzata allarga le braccia, arruolando un numero sempre crescente di minorenni incaricati di eseguire atti di intimidazione, estorsioni, omicidi, spaccio di droga ed altri reati che presentano per i maggiorenni un elevato rischio penale».
È lo stesso Scarpinato a ricostruire le tappe dell'educazione criminale: «Gli uomini delle cosche selezionano i minori più violenti e capaci, e li pongono sotto la protezione di un padrino, incaricato del loro apprendistato. L'iniziazione viene in genere avviata con l'incarico di eseguire incendi e altre intimidazioni. Prosegue con il coinvolgimento nelle estorsioni. In questi casi il maggiorenne si reca dai soggetti da ricattare accompagnato dai minori, in modo da fare comprendere alla vittima che saranno questi ultimi a riscuotere le rate del pizzo». L'ultimo passaggio sono le esecuzioni, con l'addestramento a sparare per uccidere: «Il distretto di Caltanissetta detiene il triste record di minorenni incriminati per reati di mafia, tra i quali anche decine di omicidi».
SICARI TEENAGER. Proprio il figlio di un boss della Stidda, Marco, ha descritto la vita quotidiana di un baby killer nisseno. Ha dichiarato di avere eliminato un avversario, giovanissimo, quando aveva solo quindici anni: lo impiccò come ritorsione per avere rapinato e ferito la moglie di un altro capo. Prima lo appese al cappio e poi si aggrappò alle gambe per soffocarlo, quindi gli piantò un chiodo in testa per essere sicuro che fosse morto. Infine, con l'aiuto dei complici, lo seppellì nella calce viva.
Nella guerra di mafia, tanti piccoli picciotti hanno tentato di riempire i vuoti aperti nei ranghi dei clan da sicari e retate. Un'avventura che per molti di loro si è chiusa nella vecchia cava di pietra alla periferia di Gela, trasformata nel cimitero dei mafiosi ragazzini. Per farne sparire i corpi li infilavano in pile di copertoni e poi appiccavano il fuoco, che lentamente divorava tutto: vite bruciate prima ancora di arrivare alla maggiore età. I processi per questi fatti si sono aperti negli ultimi mesi a Caltanissetta, dove per i minorenni c'è un solo pm, Simona Filoni, che porta avanti questi giudizi assieme a centinaia di altri fascicoli.
Poche settimane fa si è aperto il dibattimento più sconvolgente: imputati Ettore e Fortunato, due ragazzi accusati di strage. Gli abitanti di un condominio li avevano rimproverati perché spacciavano droga davanti all'edificio. E loro, ancora diciassettenni, hanno tentato di ucciderli tutti. Sono entrati in un appartamento, rovesciando benzina sui mobili e sul pavimento, e lo hanno incendiato. Prima di fuggire hanno bloccato il portone dello stabile con una spranga di ferro, in modo da intrappolare i residenti. Sul muro hanno scritto con lo spray: "Chi è qui, è morto". Le fiamme si sono estese a diversi piani, ma alcuni degli abitanti sono riusciti a scardinare la porta quando il fumo stava già soffocando anziani e bambini. Non è stata una bravata: hanno intercettato Fortunato mentre parlava con il suo capo chiamandolo «padrino», telefonate che mostrano la totale adesione ai metodi degli uomini d'onore.
PICCOLI BOSS CRESCONO. Oltre ai "carusi" arruolati da Stidda e Cosa nostra, nel nisseno si stanno anche formando baby gang autonome. La mentalità è la stessa. Durante gli interrogatori rivolgono sguardi sprezzanti agli investigatori: «Non sono un infame, non faccio nomi». Solo davanti ai genitori nei loro occhi compare un tratto di vergogna, senza però che si arrivi al pentimento. Nello scorso dicembre tre sedicenni hanno assaltato una villa: uno ha massacrato di botte la proprietaria. Quando lo hanno arrestato, ha preferito il carcere alla collaborazione. Un altro quindicenne ha svuotato una tanica di benzina davanti alla saracinesca di un panificio. Ma le fiamme lo hanno avvolto, trasformandolo in una torcia umana. In ospedale, nonostante le ustioni e la prospettiva della cella, non ha voluto rivelare chi fosse il mandante.
Per queste azioni i "carusi" ricevono cento euro. È la tariffa standard nel nisseno per ingaggiare una squadra di ragazzini, da usare per le intimidazioni, le rapine o le consegne di armi. Uno degli ultimi collaboratori di giustizia, Francesco Vella, ex sicario della mafia gelese, ha spiegato ai pm che quando era minorenne non «aveva bisogno di soldi»: «La mia famiglia era ricca». Ma è diventato un delinquente perché «avevo il mito del clan degli Emmanuello. Il regalo più bello è stato a 14 anni quando mi hanno dato la mia prima pistola».
Sono gli ex bambini soldato, arrestati da adulti, a raccontare episodi terribili vissuti nell'adolescenza. Una vera scuola di ferocia: «Una sera andammo a casa di un uomo che era sospettato di un attentato vicino alla casa del boss Emmanuello. Lo legammo ad una sedia e, dopo essere stato interrogato dal boss, iniziammo a strangolarlo con una corda. Mentre stava per soffocare, Emmanuello ordinò a noi ragazzini presenti di colpire la vittima con schiaffi sulla faccia, fino a quando è morto. Poi il suo cadavere è stato "offeso": ci hanno fatto urinare sul corpo».
A Gela l'ultimo omicidio che coinvolge un minorenne risale al 7 dicembre scorso. La vittima è un imprenditore, Francesco Martines, 38 anni, ucciso a colpi di pistola. Per questo delitto è indagato un sedicenne che ha dichiarato di avere premuto il grilletto: «Mio padre non c'entra nulla. Voleva solo coprirmi», ha detto al sostituto procuratore Simona Filoni. La ricostruzione è ancora al vaglio degli inquirenti. Il giovane sostiene che il padre gli aveva consegnato una pistola calibro 9 prima di incontrare l'imprenditore: «Custodiscila tu. Se le cose vanno male, dammela».
La vittima è salita in auto con l'uomo e il figlio, ma poco dopo avrebbe iniziato a schiaffeggiare il padre. A quel punto il sedicenne avrebbe preso la pistola che nascondeva sotto il giubbotto e fatto fuoco, colpendo l'imprenditore alla nuca. Il minorenne ha dichiarato: «Mio padre voleva assumersi la responsabilità, ma sono stato io. Dopo il delitto si è fatto consegnare la pistola e mi ha detto: "Cosa hai fatto? Ti sei consumato tutta la vita!"».
VENTO DEL NORD. Certo, Milano non è Gela. E non ci sono casi di omicidi commessi da minorenni. Ma le baby gang sono una realtà attiva anche nelle periferie del Nord: gruppi composti da figli di immigrati e anche bande di italiani. Che offrono alle famiglie mafiose l'occasione per reclutare braccia a basso costo. Anche in Lombardia ci sono figure emergenti. Come il ragazzino milanese che si fa chiamare "il Vallanzasca" dagli altri membri della gang di quartiere, nella zona di Quarto Oggiaro dove trent'anni fa spopolava "René".
Prima di compiere 14 anni ha messo a segno almeno una decina tra rapine e furti di auto o motorini. Una volta la volante lo ha intercettato mentre fuggiva alla guida di una vettura rubata. Dopo un inseguimento gli agenti lo hanno bloccato ma sono intervenuti i suoi genitori, entrambi pregiudicati, che lo hanno fatto fuggire. Solo quando ha raggiunto i 14 anni, nello scorso settembre, il giudice ha ordinato l'arresto: ha scritto che ha una «naturale disinvoltura e propensione all'attività delittuosa» e rappresenta «un pericolo elevatissimo e concreto per la collettività». "Il Vallanzasca" ha cercato di scappare dagli agenti, salendo su un cornicione e infilandosi nell'appartamento di una coppia di anziani, dove è stato infine bloccato: ora è in una comunità.
Nei sobborghi di Milano non ci sono solo gang di giovani d'origine asiatica o sudamericana. La polizia ne ha segnalate alcune formate da studenti, nati in famiglie italiane senza problemi economici, con la passione per la palestra. Per ora si limitano ad aggredire i loro coetanei, usando le mani per farsi consegnare catenine e telefonini. Una delinquenza metropolitana, con genitori del ceto medio spesso separati e disattenti. Ma che subisce il fascino delle storie di malavita descritte dalle fiction e sogna di comprarsi "il ferro". I magistrati che analizzano questi comportamenti parlano di reati espressione di "malassere del benessere". Passare dalla bravata al crimine è facile. Come i tre studenti di Pontassieve (Firenze) che un mese fa hanno distribuito un volantino ai negozianti chiedendo il pizzo: vi avevano stampato frasi attribuite a Raffaele Cutolo nel film "Il Camorrista".
EDUCAZIONE CRIMINALE . Ma la serie tv che ha colpito di più l'immaginario degli adolescenti è "Romanzo Criminale", forse perché narra proprio dell'ascesa di una squadra di ragazzini. A Vibo Valentia il Libanese e il Freddo sono diventati gli eroi di una baby gang che voleva diventare cosca: aveva investito il bottino dei furti nella droga, cominciando a spacciare. La polizia li ha arrestati prima che la loro attività provocasse la reazione della 'ndrangheta.
Anche nel Gargano delle faide i pistoleri della Magliana avevano ispirato i piani di un circolo di minorenni. Età tra i 15 e i 17, una canzone come grido di battaglia: "È tutta mia la città". Nel loro mirino c'era Manfredonia. Si ritiene che avessero già realizzato quattro omicidi, usando armi giocattolo da soft air modificate per sparare veri proiettili. E volevano spodestare il clan locale ammazzandone il capo: avevano progettato di chiedergli un incontro per tributare rispetto e trasformarlo invece in un'imboscata. Ma quei quattro delitti "senza autorizzazione" avevano preoccupato anche i mafiosi pugliesi che stavano cercando di scovare gli esecutori. Solo l'intervento della polizia ha impedito la strage.
«Avevano la determinazione per farsi largo, hanno ucciso senza esitare e forse sarebbero potuti essere arruolati dai boss. Questi ragazzi sono malati di malavita, affascinati dalla vita criminale», spiega il capo della squadra mobile di Foggia, Alfredo Fabbrocini: «Il fascino criminale in questo caso non arriva dalla famiglia, perché i genitori sono impiegati che non hanno nulla a che vedere con i clan». Per Fabbrocini «ci sono quattordicenni e quindicenni che si drogano ed eseguono rapine, anche con armi giocattolo. Dopo il colpo tornano felici nel gruppo di amici che li accolgono con gli applausi. Ma per quanto si atteggiassero da boss erano sempre dei ragazzini: a uno di loro la mamma ha scoperto una pistola in casa e l'ha buttata nella spazzatura, mentre ad un altro gliel'hanno rubata».
SCUOLA DI CAMORRA. I futuri camorristi fanno pratica assaltando i coetanei: calano in centro dai paesoni inglobati nell'hinterland napoletano o dai quartieri popolari e rapinano i "chiattilli", i figli di papà benestanti. Non si limitano a prendere smartphone e scooter: picchiano le vittime per il gusto di sentirsi potenti. I clan ingaggiano i più determinati di loro come corrieri della droga, per incassare le estorsioni o come sentinelle dello spaccio. La differenze è che oggi queste baby reclute sono passate dal coltello al revolver.
Lo scorso gennaio un poliziotto ha rischiato la vita per cercare di bloccare due ragazzini che avevano rubato una mini car. L'agente si è aggrappato alla vettura e i minorenni lo hanno trascinato per metri e metri. Poi hanno cercato di stringerlo contro un muro. Il tredicenne accanto al guidatore ha urlato: «Accidimmolo a 'sta guardia... (uccidiamo questo poliziotto)». Gli episodi di microcriminalità aumentano ogni settimana. Secondo Margherita Dini Ciacci, presidente del comitato Campania dell'Unicef, la pressione delle baby gang è cresciuta a Napoli del 3 per cento negli ultimi sei mesi. E a preoccupare è la progressiva diminuzione dell'età dei protagonisti: i più piccoli hanno tra i 10 e i 13 anni.
Tutti pronti a ingrossare le fila della camorra. Il procuratore generale Vittorio Martusciello denuncia «la sempre maggiore adesione dei minori ad organizzazioni criminali». Un fenomeno «che si alimenta a causa del degrado socio-culturale, bassa scolarizzazione, indigenza, mancanza di sbocchi, condizionamento connesso alla pubblicità ispirata a ideologia consumistica, prospettiva di facili guadagni, cultura dell'illegalità favorita dalla mancanza di senso delle istituzioni, appartenenza a gruppi familiari affiliati alla camorra». A Sud, i minorenni che prendono le armi sono quasi sempre figli del degrado. E solo la scuola può salvarli, offrendo un'alternativa ai modelli fatti di violenza e di morte.
Le immagini di questo servizio sono tratte dal libro 'Quello che manca. Un viaggio intorno a Napoli' di Salvatore Esposito e Angelo Petrella