Il professore palestinese commenta gli ultimi sviluppi della situazione nella Striscia. Dove nelle ultime settimane sono stati arrestati un centinaio di estremisti e il Califfato rischia di diventare il terzo fattore della partita che si gioca tra Israele e Hamas

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Cresce rapidamente il consenso attorno all'Isis tra i giovani della Striscia di Gaza e gli estremisti arrestati da Hamas nelle scorse settimane, circa un centinaio, hanno per la stragrande maggioranza un'età compresa tra 15 e 21 anni.

A dichiararlo non è un osservatore qualunque, ma il più noto tra i professori di scienze politiche e sondaggisti palestinesi e cioè Khalil Shikaki, direttore del Psr Palestinian center for policy and survey research, secondo il quale attorno al 10 per cento della popolazione di Gaza aderisce o ha simpatie per gli estremisti islamici che vogliono restaurare il Califfato.

Shikaki, in Italia nei giorni scorsi, ne ha parlato con l'Espresso a latere di un convegno organizzato dal Centro italiano per la pace in Medio Oriente (Cipmo), diretto da Janiki Cingoli, e dall'Università degli studi di Milano dal titolo “Quale futuro per lo stato palestinese?”. Il professore di Ramallah, che tiene anche corsi in università americane, vuole comunque sottolineare che l'85 per cento degli interpellati nei sondaggi svolti in Cisgiordania e a Gaza ritengono «l'Isis un'organizzazione estremista che non rappresenta l'Islam», con una quota più alta in Cisgiordania.

A Gaza la situazione è sempre più esplosiva, anche sui giornali se ne legge poco. Nelle ultime settimane il gruppo salafita delle “Brigate Omar” ha lanciato razzi nel Sud di Israele, che ha risposto con raid aerei nella notte. Altre sigle sono via via spuntate a sostegno dello stato islamico e il grande timore è che si sia alla vigilia di un'altra guerra a Gaza. «Dove la situazione è disperata - sottolinea Shikaki – e tra i giovani c'è il più alto tasso di disoccupazione al mondo, l'80 per cento. Un recente sondaggio ci ha rivelato che, per la prima volta, il 50 per cento della popolazione di Gaza vorrebbe lasciare la Striscia, vorrebbe andarsene altrove».
Reportage
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In marzo, ricorda, ci fu una manifestazione pro-Isis alla quale parteciparono circa 300 persone, tutte molto giovani. In pratica è cresciuto a Gaza un terzo protagonista, a fianco di Hamas e Israele, dalle potenzialità esplosive. «Si dovessero tenere elezioni a Gaza – dice Shikaki – dove peraltro la domanda di democrazia è molto elevata, vincerebbe Isma'il Haniyeh con un consenso del 50 per cento, mentre l'80enne Mahmoud Abbas (noto come Abu Mazen, ndr), presidente dell'Autorità nazionale palestinese e leader di Fatah arriverebbe al 46 per cento. In Cisgiordania si avrebbe l'esito inverso».
Khalil Shikaki

Il problema è che di elezioni si parla da parecchio tempo, ma le tensioni esistenti tra le due componenti principali, Fatah e Hamas, ne impediscono lo svolgimento. L'ultimo entrato in campo proprio la scorsa settimana per tentare una riconciliazione nazionale palestinese è stato il presidente russo Vladimir Putin, interessato a dire la sua in un'area, quella mediorientale, dove gli Stati Uniti hanno un atteggiamento vacillante e quasi disinteressato, come segnalava l'ultima copertina del settimanale britannico “The Economist” (“Losing the Middle East” è il titolo, tradotto Perdendo il Medio Oriente), spiegando tra l'altro perchè la Casa Bianca non deve assolutamente abbandonare la regione.

«Il conflitto israelo-palestinese non è una priorità di Obama in questo momento» conferma Shikaki, secondo il quale l'Europa potrebbe invece fare molto nella sua qualità di importante partner commerciale di Israele. E cioè? «Dovrebbe premere per boicottare e non comprare i prodotti fatti dai coloni nei nuovi insediamenti: prodotti in territori detenuti illegalmente da entità illegali. Un'iniziativa del genere manderebbe un segnale molto importante al pubblico israeliano, potrebbe far comprendere che sul lungo periodo questo potrebbe portare a costi altissimi».

Si tratta della campagna Bds (Boicottaggio, disinvestimenti e sanzioni), che la giovane e ultranazionalista ministro della Giustizia israeliano di “Focolare ebraico”, Ayelet Shaked, ha bollato come “antisemitismo in abiti nuovi”. Uno scontro, che ha avuto larga eco internazionale, e che è stato raccontato sull'ultimo numero dell'Espresso nel teportage di Gigi Riva. 

L'Italia che ruolo potrebbe avere? «In primo luogo riconoscere lo stato palestinese – risponde – in passato l'Italia ha sostenuto i palestinesi e l'ambizione di creare un proprio stato, ma negli anni recenti è stata più riluttante. Oggi dovrebbe anche esprimersi contro i nuovi insediamenti, definirli illegali e chiedere, come paese europeo, il boicottaggio dei prodotti».

Shikaki si aspettava la vittoria dei partiti di destra alle recenti elezioni israeliane. Benjamin Netanyahu si è riguadagnato la poltrona di primo ministro mettendo insieme un governo che l'avversario laburista Isaac Herzog ha definito un circo tenuto insieme solo da interessi di parte e fame di poltrone. Con un ulteriore spostamento a destra.

«E' una tendenza cominciata dopo la seconda Intifada e che continuerà rendendo difficile ogni accordo, benchè anche i palestinesi siano in parte responsabili di questa situazione» sottolinea Shikaki. L'ex leader laburista Peres ha chiesto a Netanyahu di avviare trattative, lo ascolterà? «Visto da un palestinese, una trattativa bilaterale appare al momento inattuabile. La posizione di Netanyahu è incompatibile con quella di Abbas. Per il quale, invece, sarebbe stato possibile iniziare un dialogo con il centrosinistra israeliano».

Infine Shikaki esprime una certa delusione per i risultati della Primavera araba sostenendo che l'unico esempio di sbocco positivo sia oggi la Tunisia. E lo dimostra anche il fatto che in tutti i sondaggi fatti dall'istituto nei paesi arabi la voglia di democrazia sia notevolmente scesa rispetto ai tempi iniziali della rivolta contro i regimi. In Egitto, per esempio, l'80 per cento degli intervistati sostengono che la democrazia è la cosa più bella del mondo, ma se si chiede quanto sia appropriata oggi nel loro paese, solo un terzo risponde “sì”. I motivi? La crisi economica, la mancanza di sicurezza, il tracollo dello stato.

E chiudiamo con l'argomento-clou con il quale abbiamo iniziato, le ambizioni del Califfato. Di Gaza sì è detto quanto può diventare una minaccia. In Iraq e Siria, dice Shikaki, l'Isis continuerà a guadagnare terreno. «Nessun paese arabo dell'area può ritenersi immune da eventuali attacchi dell'Isis. I bombardamenti aerei non li fermeranno, è indispensabile inviare truppe di terra, ma non mi sembra che americani e comunità internazionale siano disponibili a farlo. Anche se, nel Consiglio di sicurezza dell'Onu nessuno sarebbe contrario. Neppure i cinesi».