Nonostante i cambiamenti del mercato e la maggiore istruzione delle lavoratrici femminili, l'equiparazione non c'è ancora. E le discrepanze tra sessi sembrano continuare ad aumentare

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Più istruite ma meno pagate. Più a rischio di perdere il lavoro e meno libere di scegliere le proprie modalità. Portate dalla crisi a pesare di più nel mondo dell'occupazione, ma solo per il rinvio dell'età della pensione e per far fronte a nuovi bisogni famigliari. Si parla delle donne e degli svantaggi che tuttora devono accettare nel mondo del lavoro. Che se solo funzionasse come negli altri paesi europei, garantirebbe due milioni e mezzo di posti in più alla componente femminile anche da noi.

Se tutto questo suona già sentito, è solo un buon motivo per ritornarci sopra.

Due eventi degli ultimi giorni mi portano a dedicare “Mercati” di oggi all'argomento “tetto di cristallo” - così è chiamato l'effetto delle disparità di genere sulla carriera – come viene fotografato dai numeri più aggiornati a disposizione. Il primo dei due eventi è la petizione lanciata tre giorni sul sito Change.org dalla regista Simona Cocozza e arrivata a oltre 16 mila firme. È diretta al rettore dell' Università di Roma La Sapienza e recita: «La bellezza all'università non deve contare. Eugenio Gaudio dimettiti». In breve, condanna il rettore, medico, per aver presieduto la giuria di miss università in una manifestazione sponsorizzata da un centro di chirurgia estetica: e non tanto per il conflitto di interessi di carattere professionale, pure alquanto lampante, quanto per l'avallo all'idea che la bellezza in ambito universitario sia un valore. Belle, anche grazie al bisturi, vale di più che sapienti. E questo dalla cattedra del capo dell'università più grande d'Europa, a cui evidentemente scarseggia un'idea forte del proprio ruolo.
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Il secondo spunto mi viene dal Festival dell'economia che si svolge a Trento. Dove si presenta una ricerca della professoressa Francesca Gino dell'università di Harvard sulle differenze di genere nel mondo del lavoro. Bene, il risultato del lavoro scientifico svolto all'interno della Business School attribuisce le disparità ai diversi “obiettivi di vita” e al diverso interesse per il potere da parte delle donne rispetto agli uomini. Il potere lo desideriamo ma ci stressa, e poi dobbiamo farlo convivere con troppi obiettivi paralleli, come figli, famiglia, crescita personale... questa è la tesi. Vuoi mettere com'è più efficiente l'uomo, con il potere come pensiero fisso?

Il paradigma sui due sessi resta sempre lo stesso, i messaggi subliminali alle nuove generazioni anche. Peccato.

Il risultato di questo approccio si legge nei numeri. Prendiamo l'istruzione. Tra i 22 mila laureati tra il 2008 e il 2010, le donne prevalgono (sono il 52 per cento), e il titolo di studio funziona ancora per trovare lavoro (meglio la laurea del diploma), e per avere uno stipendio più alto. Bene, si dirà, le donne studiano e tagliano i traguardi più degli uomini, e senza paura. Ma che succede quando la laureata in questione arriva sul mercato del lavoro? Che nel centro Italia il suo stipendio è sì il 28,9 per cento in più di quello di una diplomata, ma che un uomo laureato intasca il 67,9 per cento in più del diplomato (le altre aree del paese non sono da meno). Un premio al sesso.

E quanto vale un anno di esperienza lavorativa per incrementare lo stipendio? Anche qui il vantaggio è superiore per gli uomini che per le donne. Dunque se l'università offre delle chance maggiori a quelle che assicura la semplice scuola, ci pensa poi il mercato del lavoro ad accorciare le distanze. Infine, le poche privilegiate che arrivano a occupare posizioni dirigenziali, e che quindi sono riuscite a infrangere quel soffitto di cristallo, devono inghiottire il rospo di vedere pagati i colleghi maschi per esempio il 200 per cento in più, nel nostro civilissimo Nord, ed esserne contente.

Ma c'è un'altra “chicca” che documenta, nel Rapporto Istat, la profonda disparità che governa il mercato del lavoro, che si muove con il passo del gambero alla faccia delle famose “azioni positive” tanto sbandierate in passato, e che si è ulteriormente accentuata con la crisi. Quella del part time.

Nel 2014 sono aumentati molto gli occupati part time, ma non quelli volontari, di coloro che lo chiedono per i loro motivi personali: no, il part time che cresce è quello “involontario”, sarebbe meglio dire imposto, spesso dovuto alla diffusione di orari e turni disagiati e “antisociali”.

Tra il 2008 e il 2014, certifica l'Istat, un milione e 596 tra uomini e donne hanno perso il lavoro a tempo pieno, mentre un milione e 275 mila ne hanno trovato uno a tempo parziale “involontario”. Questo mentre il part time volontario si contrae di quasi mezzo milione di contratti. E tra donne e uomini, a chi tocca di più questa nuova formula? Il sesso che ne fa più le spese sono le donne, che rinunciano in 399 mila al part time volontario (gli uomini sono solo in 91 mila). E tra i nuovi “involontari” a trionfare sono sempre le donne, 831 mila contro 444 mila uomini.

Ci manca poco che qualcuno ricordi che: è il mercato, bellezza.

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