David Miranda presenterà oggi all'Assemblea generale la proposta di accordo internazionale sui dati personali e sulla protezione dei whistleblower

Alle Nazioni Unite, il "Trattato di Snowden" per fermare la sorveglianza di massa

E' stato al centro, seppure in modo defilato, di uno dei più grandi scoop della storia del giornalismo. Il mondo si è accorto di lui solo quando è stato arrestato all'aeroporto di Heathrow, a Londra, nell'agosto del 2013, con l'accusa di terrorismo. Eppure David Miranda con jihadisti, corrieri di al Qaeda, bombaroli non ha nulla a che fare: è stato arrestato perché, come partner di Glenn Greenwald – il giornalista americano che, insieme con la documentarista Laura Poitras, ha ricevuto i file top secret di Edward Snowden – ha aiutato Greenwald e Poitras nella pubblicazione dei documenti.

Arrestandolo mentre transitava per l'aeroporto di Londra, servizi segreti e governo inglese, in collaborazione con gli Stati Uniti, hanno messo le mani sui suoi computer e telefoni nella speranza di fermare l'uscita dei documenti e di acquisire prove per l'inchiesta sulla fuga di file.

Il caso, però, ha scatenato una bufera mondiale e ha dimostrato fino a che punto governi democratici, come quello inglese, sono disposti ad arrivare per fermare il giornalismo che indaga sui massimi sistemi del Potere e fino a che punto le leggi contro il terrorismo possono essere abusate in una democrazia.

Oggi David Miranda presenta all'Assemblea generale delle Nazioni Unite il “Trattato di Snowden”: una proposta di accordo internazionale per fermare quella sorveglianza di massa che, dopo le rivelazioni di Snowden, nessuno può più negare o minimizzare. A supportare l'iniziativa sono testimonial eccellenti, come Glenn Greenwald, Laura Poitras, Noam Chomsky, l'organizzazione di Julian Assange, WikiLeaks, e registi come Oliver Stone, che sta lavorando a un film su Edward Snowden. “L'Espresso” ha chiesto a David Miranda di raccontare i giorni del caso Snowden che sconvolsero il mondo.

Ricorda quando ha sentito per la prima volta il nome di Snowden?
«Sì, è stato subito dopo che Glenn ha pubblicato gli articoli della prima settimana di rivelazioni, mentre si trovava a Hong Kong. Prima di quel momento, lo conoscevamo solo come “Citizenfour”. Avevamo parlato di questa persona, di cosa faceva uscire e delle ragioni per cui lo faceva e questo fatto dava a Glenn così tanta forza di pubblicare. Ad aprile 2013, quando Laura è venuta da noi a farci vedere un paio di documenti, mostrandoli sui miei computer, io ero lì e insieme discutevamo del caso. E quando Glenn è volato a New York e a Hong Kong, eravamo in contatto, ma ho saputo il suo nome solo dopo la pubblicazione degli articoli».

Lei cosa suggerì a Glenn Greenwald? L'importanza della storia era chiara, ma anche i rischi lo erano...
«Glenn è un giornalista con una grande passione. Può starsene incollato a una sedia per quarantacinque ore a valutare una storia. Si rendeva conto dei rischi, quello era uno dei più grandi scoop della sua carriera ed era veramente importante far uscire rivelazioni su questioni su cui lui aveva lavorato per anni. Quindi la mia posizione sulla vicenda era quella di dare il massimo supporto al mio partner, perché io credo in tutto quello che lui fa. E la mia prima reazione è stata di paura: temevo che potessero farci qualche azione di rappresaglia o che ci potessero anche uccidere, ma la mia scelta è stata di dargli tutto l'aiuto di cui aveva bisogno».

Le sono capitate cose preoccupanti nei mesi in cui Glenn Greenwald, Laura Poitras e altri giornalisti lavoravano sui file di Snowden?
«Ho passato un momento veramente cupo, di grande tensione. E' stato il primo sabato successivo alla pubblicazione delle prime storie, quella sulla Verizon e poi quella sul programma Prism. Con Glenn parlavano costantemente al telefono, ma quel giorno non parlammo molto. Io tornai a casa e mi svegliai: mi trovavo nel soggiorno e il mio computer era sparito. A casa abbiamo molti cani: non avevano abbaiato. Arrivò un tizio del servizio elettricità e mi disse: abbiamo l'ordine di tagliarle l'elettricità. E così fece: tagliò la corrente. Io cercavo di parlare con Glenn e con Edward Snowden, ma se ne era andato. Non riuscivo a parlare con Glenn, non avevo il numero di Laura: era una situazione veramente strana. Andai in banca, ma il mio codice di “social security” era bloccato. Non so per quale ragione. Parlai con un'impiegata, che mi disse: 'Sì, il suo codice è bloccato, ma le darò i soldi comunque, non si preoccupi'. La signora mi dette i soldi e io andai all'azienda dell'elettricità per pagare la bolletta, perché il tipo che mi aveva tagliato la corrente mi aveva rilasciato un documento da cui le bollette risultavano non pagate. Arrivato lì, l'impiegata del servizio elettrico mi disse che le nostre bollette erano a posto e che lei non sapeva perché ci fosse stata tagliata la corrente. A quel punto cominciai a pensare: Edward è andato, hanno preso Glenn e ora tocca a me. Non volevo andare da nessun amico o dalla mia famiglia, perché non volevo coinvolgere nessun altro, così tornai a casa, me ne stavo seduto con i miei cani vicini e con gli occhi ben aperti. La mattina dopo – ricordo benissimo quel momento – sentii i cani che abbaiavano, uscii fuori e vidi Glenn sulla soglia della porta di casa. Attaccai a piangere come un bambino, perché era sano e salvo».

Nell'agosto del 2013, lei è stato arrestato a Londra in base alla sezione 7 della legge inglese sulla lotta al terrorismo, il “Terrorism Act”, mentre viaggiava da Berlino a Rio de Janeiro per supportare il lavoro giornalistico di Glenn Greenwald e Laura Poitras sui file di Snowden. Per mettere le loro mani sul database dei documenti, i funzionari del governo inglese non hanno avuto alcuno scrupolo a usare le leggi antiterrorismo contro di lei. Può ricostruire cosa accadde quel giorno in cui fu arrestato?
«Ero andato a Berlino a incontrare Laura. Tornando indietro sono stato fermato e arrestato all'aeroporto di Heathrow. Mi hanno tenuto in stato di arresto per dodici ore, per nove ore sono stato interrogato e per tre sono rimasto lì seduto: il mio passaporto era nelle loro mani. Durante l'interrogatorio ho avuto accesso al mio legale solo dopo otto ore e quindici minuti. Sono stato interrogato da sette diversi agenti, per otto ore e un quarto di seguito, in base al “Terrorism Act”. Prima mi avevano spiato. Spiano i giornalisti perché possono: hanno i sistemi per farlo. E il 16 agosto 2013 [due giorni prima dell'arresto, ndr] avevano mandato un messaggio alla Casa Bianca per dire che mi avrebbero arrestato, interrogato e avrebbero confiscato i miei materiali. Fare tutto questo sulla base della legge antiterrorismo è stato un totale abuso di potere».

Lei ha risposto con un'azione legale contro la decisione del governo inglese di arrestarla in base al Terrorism Act. In tribunale ha perso in primo grado, ma è ricorso in appello. Perché ha fatto questa denuncia e per quando è prevista la sentenza?
«La sentenza è, in tutta probabilità, prevista per il prossimo anno. In Inghilterra molte autorità hanno detto che è stato un errore totale, ma io voglio dimostrare quanto siano disgustosi governi come quello inglese, americano, canadese e australiano: vogliono creare questo mondo, quest'atmosfera per cui i giornalisti non possono fare il loro lavoro. Sorvegliano i giornalisti che vogliono esporre gli abusi di potere e poi bollano il loro lavoro come 'terrorismo'. E' per questo che ho portato avanti la mia azione legale: voglio dimostrare al mondo che possiamo vincere contro questa gente, possiamo combatterli e costringerli alla trasparenza e alla giustizia».

Gli avvocati di Sarah Harrison, la giornalista di WikiLeaks che ha aiutato Snowden a cercare asilo, le hanno consigliato di non tornare nel suo paese, l'Inghilterra, perché tornando avrebbe rischiato di finire arrestata anche lei per l'aiuto dato a Snowden. Come giudica quello che WikiLeaks e, in particolare, Sarah Harrison hanno fatto per Edward Snowden?
«Ho un grande rispetto per WikiLeaks: in questi anni hanno fatto un lavoro incredibile: stanno anche lavorando sul “Trattato di Snowden”».

Parlando del Trattato, quali sono gli aspetti più importanti?
«Il Trattato presenta due aspetti importanti: prima di tutto, dobbiamo fermare la sorveglianza di massa, non possiamo permettere ai governi di raccogliere i nostri dati e di usarli per qualsiasi scopo. Raccogliere i dati di intere popolazioni è estremamente pericoloso e profondamente sbagliato. Poi ci sono le regole sulla protezione dei whistleblower. Il whistleblower che è cittadino di un paese che aderisce al Trattato di Snowden dovrà essere necessariamente protetto».

Considerando quello che è successo a Snowden, a cui l'intera Europa ha negato l'asilo, lei crede che ci sia alcuna seria possibilità che paesi come gli Stati Uniti o gli stati europei adottino il Trattato di Snowden?
«C'è un grandissimo dibattito attualmente in corso nella sfera delle aziende tecnologiche: è possibile vedere come stanno cambiando dopo le rivelazioni di Snowden. Senza di esse, questo cambiamento avrebbe richiesto 10-15 anni. Ci sono interi team di quelle aziende negli Stati Uniti, in Europa, in Sud America, che stanno lavorando sulla crittografia, perché sanno che ora i cittadini si preoccupano della privacy. La questione vera non è quello che i governi vogliono, la questione vera è quello che i cittadini vogliono. Se davvero vogliamo un trattato come questo, allora dobbiamo lavorare insieme, costruirlo e costringere i governi a firmarlo. Non è qualcosa che faccio per me o per te, è qualcosa che riguarda l'intera umanità».

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