Il 19 settembre del 1985 moriva lo scrittore. Il ricordo dell'amico e compagno di scuola, dagli anni del liceo a quelli di "Repubblica"

"Dimentica e ricorda", scriveva Italo Calvino su “la Repubblica”, in un omaggio a Octavio Paz nel settembre del 1984: «Ricordare è necessario, ma dimenticare è una funzione altrettanto vitale per il pensiero. Il vero compito dell’intellettuale è quello di aiutare a ricordare il dimenticato, ma per fare questo deve prima aiutare a dimenticare ciò che ricordiamo troppo: idee ricevute, che ci impediscono di vedere e pensare e dire il nuovo».

Questo è il punto: a trent’anni dalla morte, si può dire qualcosa di nuovo su Calvino? Eugenio Scalfari, che dello scrittore è stato amico sin dagli anni di scuola a Sanremo, coglie la sfida. E, tra parole e immagini, tra contemporanei in carne e ossa e consanguinei dell’anima, di quell’amicizia molte volte raccontata distilla, oggi, l’essenza. Parla delle affinità istintive. Ammette l’influenza esercitata sulle sue riflessioni: come la lezione sulla leggerezza, consapevolezza che dà un ritmo diverso alla vita. E come nella prima delle “Lezioni americane”, il dialogo ondeggia tra due tentazioni: togliere peso ai ricordi, trasformandoli in un pulviscolo di sensazioni e di suggestioni. E comunicarne lo spessore, la concretezza, le date e i fatti. Con Atena ed Ermes a volteggiare intorno; Leopardi e Borges in agguato, e il jazz per divagare. E ribadire: ricordi da ridere e da emozione vera.


Il giorno dopo la morte di Calvino ha scritto un ricordo intitolato “Quando avevamo diciotto anni”, che si conclude così: “Il ricordo di quell’‘allora’ dovrò conservarlo io per tutti e due, fino a che potrò”. In questi anni ha rilanciato costantemente l’eredità culturale di Calvino. Perché ha sentito questa responsabilità?
«Arrivai al Liceo Cassini di Sanremo nel 1938, avevo 14 anni, lui 15. Fummo assegnati nel banco insieme e per due anni su tre condividemmo lo stesso posto. Presto si formò una specie di banda di una quindicina di ragazzi, che non era fatta dai primi della classe, ma dai più interessati a porsi domande. Ci incontravamo il pomeriggio in una sala di biliardo, c’era chi giocava, chi preparava i compiti, altri che chiacchieravano. E una volta Calvino ci sorprese con una frase: “Noi abbiamo tutti insieme incontrato Atena”. Nessuno capì il significato. Allora lui spiegò: “Perché Atena è la dea di tante cose, ma soprattutto della polis, cioè del senso civico, e dell’intelligenza”. Non a caso era uscita dalla testa di Zeus già armata. Tutto ha inizio con quella frase. In seguito, spesso gli chiedevo: “A che punto è il tuo rapporto con Atena?”».


Eppure eravate diversissimi. Laico lui, lei con madre cattolica. Lui del Nord, lei arrivava da Civitavecchia ed era iscritto ai Gruppi universitari fascisti. Che cosa vi attirò l’uno verso l’altro?
«Avevamo l’età in cui la curiosità comincia a rivolgersi al mondo. La curiosità è libertà. E supera le appartenenze: io ero fascista ma lui non era antifascista, tant’è che scrisse sul giornale del Guf perché io lo spinsi a farlo. Scherzavamo. Formavamo partiti di cui eravamo unici iscritti. Inventammo “Filippo”...».

Cioè Dio.
«Certo, Dio. Ridevamo: “Sarà un viaggio lungo, ma partiamo”. “Se lo troviamo bene, altrimenti pazienza”. “Ma non possiamo chiamarlo Dio”. E allora Italo disse: “Filippo. È più bonario...».

Discutevate di scienze, di cosmologia. Lei gli propose di entrare in un partito aristocratico-sociale. In un giorno d’estate creaste un sistema filosofico: la filosofia dello slancio vitale. L’entusiasmo che descrive cozza con l’immagine di Calvino rigoroso e schivo che abbiamo ereditato. Ha dei ricordi di questi pudori e ombrosità?
«Nel tempo lui è cambiato. Ma a quell’epoca aveva un ritegno e una timidezza totali verso le donne. Mentre noi le corteggiavamo, lui no. Gli facevamo degli scherzacci, come lasciarlo in mezzo al mare con una ragazza complice, per metterlo in imbarazzo. Per non parlare della prima visita che facemmo, in minore età, sponsorizzati da alcuni ripetenti, al bordello».


Andaste insieme?
«Meglio tralasciare».

A proposito di donne, però. Nel 1979 esce “Se una notte d’inverno un viaggiatore”. I lettori si innamorano di Ludmilla, la lettrice pura. E in una lettera a Elsa De Giorgi si legge: “Io voglio scrivere del nostro amore, voglio amarti scrivendo, prenderti scrivendo, non altro”. Tutta un’altra storia.
«Sì, crescendo il suo rapporto con le donne cambiò molto. Concepiva la passione, il possesso fisico».

Che idea si è fatto, nel tempo, della passione con la De Giorgi?
«Noi non avevamo contatti in quel periodo. La nostra vita comune durò dal settembre del 1938 fino all’8 settembre del ’43: fummo tutti promossi con lo scrutinio di guerra. Io mi iscrissi all’università di Roma, lui andò prima a Perugia, poi a Torino. Perdemmo i contatti. Negli anni seguenti, quando era editor dell’Einaudi, se veniva a Roma mi dava sempre una telefonata. Una volta, d’estate, gli chiesi se voleva venire con me a Lido dei Pini. Appena vide tutte le signore discinte mi disse: “Guarda che queste donne hanno bruttissime gambe, non mi piace, me ne vado”. Non era vero, ma le giudicò così: al punto da andarsene. Della storia con Elsa De Giorgi venni a sapere solo in seguito».

È il solito dilemma: quanto il privato di un autore aiuti a coglierne opere e cambiamenti stilistici. Le lettere, ad esempio: Calvino ne ha scritte moltissime. Anche a lei.
«Quando eravamo lontani, io a Roma e lui a Torino, ci scrivevamo quasi ogni settimana. Queste lettere sono una quarantina. Dopo la morte, volli pubblicarne un paio e dovetti chiedere il permesso alla moglie, un’argentina che aveva un suo carattere. Prima disse no. Poi acconsentì, a patto di sceglierne lei due. Le più sciocche. Le ritelefonai dicendo che ero interessato a una terza. “No, quella no. Voglio fare io una pubblicazione”. “Sì, ma delle mie dovrò darti io il consenso: dobbiamo venire a un accordo”. Disse sì: “Ma sia l’ultima volta che mi usi questa prepotenza”. Non era una prepotenza».

Per un po’ di anni vi perdeste di vista. Quando vi ritrovaste?
«Seppi che era andato a Parigi. Era diventato amicissimo di Bernardo Valli, il quale all’epoca lavorava per il “Corriere della Sera”. A un certo punto andò a Parigi anche Pietro Citati, sempre per il “Corriere”. Allora pensai di fare una gita. Chiamai Giancarlo Marmori, il nostro corrispondente, che li conosceva, e gli chiesi di farmeli incontrare. A Italo dissi: “Sto per fondare un giornale, vorrei che tu lo vedessi e, qualora ti piacesse, venissi”. Tutti mi risposero cose di cortesia. Lasciai passare un po’ di anni. E quando, dopo la vicenda Moro, le vendite salirono fino a superare “Il Messaggero”, “La Stampa” e alla fine il “Corriere della Sera”, ritentai. Bernardo mi disse: “Io sono amico di Piero Ottone, non lascio finché c’è lui. Dopo verrò con te”. Citati mi rispose che sarebbe venuto a Roma, per parlarne. Italo mi disse di sì: “Io vengo. Tra pochi mesi, appena mi trasferisco a Roma”. Quando venne a “Repubblica”, occupava al “Corriere” la posizione da editorialista che era stata di Pasolini».

Calvino, uscito dal Pci, si avvicinò alla sinistra socialista di Giolitti. Ma anche da lì arriverà una delusione. Si distaccherà dalla politica. Resterà la passione civile e la grande tensione etica. Oggi con chi starebbe politicamente?
«Negli anni in cui Calvino lavorò per “Repubblica”, scrivendo alcuni degli articoli più belli pubblicati dal nostro giornale, constatai che avevamo le stesse idee politiche. Eravamo liberaldemocratici, azionisti. E come tali di sinistra non comunista. Però lui fino al ’56 aveva militato dentro il Partito comunista, io mai. Io cominciai a votare comunista con Berlinguer. E da allora ho sempre votato per i partiti che il partito comunista ha figliato. Quello di Occhetto, poi di Veltroni. E adesso, ho qualche difficoltà... Lui la pensava esattamente come me. Molti anni dopo, ho ripubblicato tale e quale, con lo stesso titolo e solo con un post-scriptum, un suo pezzo uscito anni prima. Senza quell’avvertimento, sembrerebbe scritto oggi».

Era un apologo sull’onestà. Tra l’opzione fantastica, l’invettiva, la parodia, se avesse oggi tra i suoi giornalisti Calvino, che genere gli chiederebbe di utilizzare per raccontare l’attualità italiana?
«Ma io l’ho avuto tra i miei giornalisti. E ha utilizzato forme così efficaci da restare attuale anche molti anni dopo. Alcuni gli imputano di essersi dedicato a una letteratura che nulla ha a che fare con la vita. Dimenticano che fino all’ultimo fu coinvolto in battaglie politiche. Ho scritto un libro, qualche anno fa, “Per l’alto mare aperto”, dedicato alla modernità, che per me comincia con Montaigne e finisce con Nietzsche. E ho dedicato due capitoli a coloro che io considero gli unici moderni italiani: Italo Calvino ed Eugenio Montale. Li ho conosciuti entrambi: con Montale fu una conoscenza fuggevole, ma la sua poesia mi ha tenuto compagnia per tutta la vita. Calvino è stato l’ultimo degli Illuministi. Spesso era taciturno. Ma se si affrontava il tema delle invasioni barbariche dalle quali ci sentivamo circondati tornava la verve giovanile».

Se la prendeva con la peste del linguaggio.
«Sì. E in quel libro riporto anche un nostro dialogo sui romanzi. Un giorno gli chiesi quali erano stati i suoi modelli. Mi disse: il Conte philosophique. “Candide”. “Jacques le fataliste”. “Le rêve de d’Alembert”, e “Le Neveu de Rameau”. Cioè Voltaire e Diderot. Eravamo uguali».

Delle “Lezioni americane” ha detto che avrebbe potuto scriverle lei, tanto si riconosceva in ogni pensiero. C’è qualcosa in cui pensa di aver influenzato Calvino?
«No, io non penso di averlo influenzato. Lui non era uno influenzabile. Lui ha influenzato me».

In cosa?
«Lui aveva la capacità di guardare dentro. Io, anche per il mio mestiere, la capacità di guardare fuori. Guardando fuori si impara a capire le persone, guardando dentro a capire te stesso. Ho cominciato il viaggio interiore tardi, a 41 anni. Lui guardava da dentro alla realtà di fuori. Voglio dire che non fu solo un artista, ma anche un intellettuale. Lontano da retorica ed eloquenza. Più attento a togliere il superfluo che ad aggiungere».

La lezione sulla leggerezza. L’ha ricercata anche lei?
«Alla maniera da lui descritta. Quando nella prima Lezione americana racconta Guido Cavalcanti, dice che è un saturnino e spiega chi sono: quelli che hanno nel cuore la malinconia e rifuggono dal contatto con gli altri. Poi ci sono i mercuriali, legati da Ermes. Io sono un mercuriale, alla sua maniera. Ma come lui vorrebbe essere un mercuriale, io vorrei essere un saturnino. La verità è che sono le facce d’una stessa persona. Ognuno a suo modo è al tempo stesso mercuriale o saturnino».

Siamo partiti da Atena. Nella vita serve di più l’ordine o la fantasia?
«Sono due facce. E noi le avevamo tutte e due. Quella mercuriale era alimentata dal giornalismo; l’altra, quella saturnina, dalla quantità di libri che leggevo. E poi ho deciso di cominciare a scrivere i libri che mi stavano dentro: “Incontro con Io”,“L’uomo che non credeva in Dio”, “Alla ricerca della morale perduta”, “Scuote l’anima mia Eros”. Oggi ho sentito la necessità di cambiare di nuovo. Mi attirava lo “Zibaldone” di Leopardi, 4200 pagine. L’ho letto tutto. E ho deciso di fare anch’io uno zibaldone. Un libro che parla di quello che incide sui miei pensieri. Si intitola “L’allegria, il pianto, la vita”».

Esce il 22 settembre. Ricomincia da Leopardi, col quale Calvino chiude la Lezione sulla leggerezza.
«Perché Leopardi dà della felicità immagini di leggerezza. Rileggo testualmente Calvino: “Gli uccelli, una voce femminile che canta da una finestra, la trasparenza dell’aria, e soprattutto la luna. La luna, appena s’affaccia nei versi dei poeti, ha avuto sempre il potere di comunicare una sensazione di levità, di sospensione, di silenzioso e calmo incantesimo”. E termina citando: “Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, silenziosa luna? Sorgi la sera, e vai, contemplando i deserti; indi ti posi”».

Togliere peso alla lingua, fino a farla somigliare alla luce lunare.
«Questo è stato Italo Calvino. Lui sperava di trasmettere un canone di leggerezza, di esattezza, di eleganza intellettuale».

E nel suo Zibaldone cosa ci sarà?
«Comincia e finisce con una mia poesia. Ce ne sono quattro. Racconto, tra l’altro, sei pianti che ho fatto nella vita: per la morte di mio padre, per l’abbandono provvisorio del mio amore bigamo, per la morte di mia moglie Simonetta. Poi quando morirono Berlinguer e Mario Pannunzio. E un sesto, che ha stupito anche me: la morte del jazzista Louis Armstrong. Io non l’ho mai conosciuto, anche se l’ho ascoltato interamente. Un grande scrittore ha scritto “L’età del jazz”, senza dire una sola parola sul jazz. È Scott Fitzgerald, che racconta come sono cambiati i costumi tra il 1900 e il 1930. Riflettendo, ho capito che quel pianto era legato all’autore de “Il grande Gatsby” e di “Tenera è la notte”. Ecco com’è fatto questo libro».

L’anno prossimo Einaudi ripubblica un suo romanzo di 18 anni fa intitolato “Il Labirinto”. Il labirinto rimanda istintivamente a Borges, che è stato di grande importanza per Calvino, autore di storie fantastiche, col gusto della geometria. “Aver scoperto Atena insieme” è stato un destino?
«In realtà, ne “Il Labirinto” non parlo mai di Calvino. Ma a pensarci, è proprio così». 

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