La battaglia in corso tra Teheran e Riad avrà ripercussioni geopolitiche a cominciare dai già fragili processi di pace in Siria e Yemen. Ma è anche un messaggio dei sauditi alla Casa Bianca e alla politica di apertura di Obama verso l'Iran

Teheran, proteste contro l'Arabia saudita
In corso da decenni, spesso sottotraccia, la guerra fredda tra Iran e Arabia saudita per l'egemonia regionale rischia di deflagrare, ed è destinata a ripercuotersi sui già fragili processi di pace in Siria e Yemen. Il fattore scatenante, l'ultimo in una lunga serie di colpi bassi, sospetti e accuse reciproche, è la decapitazione da parte delle autorità di Riad dell'influente sceicco Nimr al-Nimr, cittadino saudita e voce autorevole della minoranza sciita, che rappresenta il 15% circa dei 27 milioni di abitanti del regno dei Saud.

Tra i promotori delle manifestazioni che nel 2011 hanno scosso l'Arabia saudita e il vicino Bahrein, voce critica del regime, avvocato dei diritti di una minoranza esclusa dal potere e fortemente discriminata, Nimr al-Nimr è stato arrestato nell'estate del 2012. Giudicato colpevole nell'ottobre 2014 di aver rotto «il patto di fedeltà con i governanti» e di «aver messo a repentaglio la sicurezza del regno», è stato giustiziato sabato 2 gennaio.

Con la sua decapitazione, Riad ha compiuto una mossa azzardata, giocando apertamente la carta settaria: il regno dei Saud sapeva che l'esecuzione avrebbe provocato forti reazioni in Iran e risentimento in tutto il mondo sciita. Diverse manifestazioni di protesta si sono registrate ad Awamiya, nel villaggio natale di Nimr al-Nimr, nel Bahrein (paese in cui la maggioranza sciita è discriminata dalla minoranza sunnita al potere), in Libano, Pakistan, Turchia e in Iran, dove sono state assaltate le rappresentanze diplomatiche dell'Arabia saudita di Teheran e Mashad, nel nord est del paese.
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Per Riad, più importante delle reazioni, è il messaggio politico affidato al boia di Stato e rivolto a più destinatari. Alla Casa Bianca i sauditi mandano a dire che, se Obama persevera con la sua politica di apertura verso Teheran, suggellata dall'accordo sul nucleare firmato il 14 luglio 2015 dall'Iran e dal gruppo dei 5+1 (Usa, Regno Unito, Francia, Russia, Cina e Germania), Riad difenderà i propri interessi e lo status di alleato principale nell'area. A Teheran re Salman, al potere dal gennaio 2015, ribadisce che non rinuncia alla vocazione egemonica in Medio Oriente. E che non è disposto a tollerare ulteriori interferenze iraniane nella partita siriana.

La mossa di Riad è un'esibizione di forza muscolare, ma nasce da alcune debolezze, ha sottolineato Hossein Jaber Ansari, portavoce del ministero degli Esteri iraniano. Un giudizio di parte, ma fondato. In chiave domestica, l'Arabia saudita affronta diversi problemi: l'economia che arranca rispetto al passato, la disoccupazione giovanile che cresce, le difficoltà a riconfigurare un'economia che si fonda per il 90% sull'estrazione e la vendita del petrolio, risorsa esauribile. Sul fronte esterno, le crepe nell'alleanza strategica con gli Stati Uniti, contestata da quanti legano la rinascita del jihadismo all'esportazione della dottrina di Stato dei sauditi: il wahabismo, corrente islamica fondamentalista.

L'Occidente a lungo ha chiuso un occhio. Ma nell'ultimo anno e mezzo ha cominciato a denunciare quel legame, con l'aggravarsi della crisi siriana e l'affermazione dello Stato islamico. Gli ideologi del Califfo attingono a piene mani al settarismo wahabita, ma hanno nel mirino anche Riad, regime “apostata” perché alleato con l'empio Occidente. Le recenti minacce da parte dell'Is potrebbero aver suggerito ai Saud di dirottare l'attenzione altrove, sul “nemico vicino” dei jihadisti: gli sciiti.

È un gioco rischioso. Vista da Teheran, una vera e propria provocazione. Che merita una risposta vigorosa. Trovare la giusta misura non è facile. Si rischia di far emergere i dissidi interni all'establishment della teocrazia sciita. O di mandare all'aria i faticosi negoziati che hanno portato alla riapertura delle relazioni diplomatiche tra Teheran e Washington, dopo il muro contro muro della presidenza targata Ahmadinejad.

Il ruolo del cattivo è affidato al leader supremo, l'ayatollah Khamenei, che ha invocato «una vendetta divina», per poi dichiarare che l'Iran risponderà alle provocazioni «colpendo il nemico sul muso». Il ruolo del conciliatore è nelle mani di un abile diplomatico, il presidente Hossan Rohani, che ha condannato gli attacchi contro le sedi diplomatiche saudite e garantito che assicurerà i responsabili alla giustizia (50 gli arresti finora).

La rassicurazione non è bastata: l'Arabia saudita ha interrotto le relazioni diplomatiche con l'Iran, seguita dal Bahrain, dagli Emirati arabi uniti e dal Kuwait, che hanno adottato misure simili e che danno voce, come membri del Consiglio di cooperazione del Golfo, ai paesi che guardano con scetticismo alla normalizzazione dei rapporti tra l'Occidente e l'Iran.

Riad non ha fatto fatica ad allineare i partner nel mondo arabo-sunnita, facendo leva sulla comune convinzione che Teheran giochi sporco e miri a imporsi come leader regionale tramite il sostegno alle milizie armate in Libano (Hezbollah), nello Yemen (i 'ribelli' Houthi), in Siria (con i gruppi pro-Assad). Su richiesta dei sauditi domenica prossima si terrà un incontro di emergenza della Lega araba per «condannare l'interferenza iraniana negli affari arabi». Una posizione ribadita ieri dal ministro degli Esteri degli Emirati arabi uniti, che ha condannato la «retorica settaria» dell'Iran, adottando quasi alla lettera le parole con cui l'omologo saudita, Adel al-Jubeir, poche ore prima aveva condannato «la storia dell'Iran», «piena di interferenze negative e di ostilità nelle questioni arabe».

Sono due le “questioni arabe” sulle quali peseranno di più le implicazioni geopolitiche della battaglia in corso tra Teheran e Riad.  La partita più importante si gioca in Siria, dove Teheran appoggia il presidente Bashar Assad e Riad le formazioni che lo combattono. Lo scorso dicembre, il Consiglio di sicurezza della Nazioni Unite ha adottato all'unanimità una risoluzione che chiedeva il cessate il fuoco e invocava un processo politico che conducesse entro sei mesi «a una governance credibile, inclusiva e non settaria», in vista di elezioni da tenere nell'arco di un anno e mezzo (ma senza affrontare la questione principale: il destino di Assad).

Proprio a dicembre, una conferenza voluta dalle autorità saudite aveva raccolto a Riad diversi gruppi armati e fazioni politiche attive in Siria, pronte - sulla carta - a una soluzione politica del conflitto basata sul pluralismo. Ma il “Consiglio islamico siriano” e 26 gruppi ribelli anti-Assad, tra i quali Jaish al-Islam - un network che include varie milizie islamiste - hanno accolto con favore la decisione di Riad di interrompere le relazioni diplomatiche con Teheran. Un segnale di quanto sia  complicata, oggi più di ieri, la partita in Siria. E impossibile la missione dell'inviato dell'Onu, Staffan De Mistura, in volo per Riad e Teheran per disinnescare la miccia.

In Iraq, lo scenario è altrettanto negativo. Il governo in questi giorni sta cercando di consolidare i primi, significativi successi militari contro lo Stato islamico, ma il botta e risposta tra Teheran e Riad ha già provocato sconquassi nel fronte politico interno, segnato dal risentimento della componente sunnita per l'ostracismo subito da parte della leadership sciita. A dare voce al biasimo verso i sauditi, ci ha pensato il grande ayathollah al-Sistani, che ha definito l'esecuzione di Nimr al-Nimr come «un ingiusto atto di aggressione», che qualcuno ieri ha pensato di “vendicare” colpendo due moschee sunnite nel centro del paese.

A pagare le conseguenze dell'aperta ostilità tra l'Arabia saudita e l'Iran sarà soprattutto lo Yemen, dove il conflitto rischia di assumere tratti persino peggiori di quelli registrati nel 2015. Finora sono almeno 6.000 le vittime accertate, perlopiù civili, 2 milioni le persone costrette a lasciare le proprie case, 120.000 ad abbandonare il paese. Il 2 gennaio, a ridosso dell'esecuzione di Nimr al-Nimr, l'Arabia saudita ha cestinato il cessate il fuoco siglato il 15 dicembre 2015, rendendo ancora più aleatori i colloqui di pace previsti per il prossimo 14 gennaio.  

Il caso yemenita è esemplare, perché mostra quanto sia dannoso l'uso strumentale di categorie religiose – sciiti versus sunniti – per alimentare (e interpretare) dissidi politici e sociali. Il conflitto yemenita, provocato da questioni economiche di natura interna, regionale, si è via via andato riconfigurando come un conflitto settario, a causa dell'intromissione degli attori regionali.

I paesi arabi, in particolare l'Arabia saudita, il Qatar e gli Emirati arabi uniti, ritengono che ci sia l'Iran dietro i successi militari delle forze “ribelli” Houthi, la minoranza sciita che nel settembre 2014 ha conquisto la capitale Sanaa, costringendo all'esilio temporaneo e alle dimissioni il presidente Abd Rabbo Mansour Hadi, eletto nel 2012 al posto di Ali Abdullah Saleh, il leader rovesciato nel 2011 dopo imponenti proteste popolari. Per sconfiggere gli Houthi – alleati con le forze di sicurezza fedeli all'ex presidente Saleh – e reinsediare Hadi, dal marzo 2015 l'Arabia saudita conduce nello Yemen una violenta campagna militare.

I bombardamenti – favoriti dall'intelligence statunitense - non hanno prodotto effetti significativi nell'equilibrio delle forze in campo. Ma hanno provocato molte vittime civili. E trasformato sempre più un conflitto politico interno in una battaglia settaria tra sciiti e sunniti, con protagonisti gli attori regionali. 

Nimr al-Nimr, l'imam giustiziato lo scorso sabato in Arabia saudita, rivendicava la sua appartenenza all'Islam sciita. Ma rigettava il settarismo. Descritto dalle autorità come un terrorista al soldo dell'Iran e fomentatore di violenze settarie, non ha mai negato di contestare l'autoritarismo reazionario del regime saudita, ma ha sempre invocato azioni pacifiche e rifiutato l'etichetta identitaria cucitagli addosso, per non rimanere stritolato nello scontro tra la teocrazia sciita di Teheran e la monarchia sunnita di Riad.

In uno dei cable diplomatici rivelati da Wikileaks, i diplomatici americani sottolineano come Nimr al-Nimr rigettasse la politica basata sulle appartenenze religiose e identitarie, e condannasse non solo l'Arabia saudita ma anche l'Iran, perché fondava la propria politica «sui propri interessi, non sulla pietà o sulla condivisione religiosa». Nimr al-Nimr era un pensatore influente e accorto. Pienamente consapevole del rischio di essere strumentalizzato. Ora che è morto, il rischio è maggiore.