Chiara Appendino, la 5 Stelle anomala tutta dialogo e porte aperte
Collabora con il governatore Pd Chiamparino, fa la pace con Profumo, sorride agli investitori arabi. Così la neo sindaca di Torino disegna un altro Movimento 5 Stelle possibile
La verità è che forse non è grillina abbastanza. Il dubbio si è insinuato quando il 22 settembre il capo dello Stato Sergio Mattarella ha inaugurato Terra Madre Salone del Gusto e la sindaca di Torino Chiara Appendino l’ha accolto con il rispetto di una nativa sabauda. Non con l’ortodosso distacco di una figlia della rivoluzione del Vaffa. Bastava già questo a arruffare il grande cervello grillino e le corrispondenti piattaforme Rousseau. Ma gli orizzonti virano e sotto l’esoterico cielo torinese le liaisons dangereuses evolvono. Come quella con un altro Sergio, il presidente della Regione Chiamparino assai critico con Renzi ma così in sintonia, politica e culturale, con la sindaca da venir ribattezzato Chia-ppendino. Come l’apertura di credito verso Francesco Profumo, ex ministro di Mario Monti, ora presidente della Compagnia di San Paolo, dopo che lei appena insediata ne aveva chiesto, crudele, la testa.
Rispetto al primordiale dogma pentastellato il laboratorio Torino può essere l’incubatore di un cambiamento, un grillismo 2.0 di cui Appendino potrebbe rappresentare la novità genetica di ultima generazione. Se si dovesse riempire il solco della differenza antropologica che corre tra lei e Paola Taverna, grillina di un grillismo primitivo, soave creatura del «non siete gniente, gniente, gniente» (affettuosità diretta ai colleghi senatori) non basterebbe l’area del deserto del Gobi e quello del Chihuahua messi insieme. Senza esagerare in pretese oracolari, in realtà la Appendino sembra una grillina per caso. Secondo la leggenda un tempo tifava Vendola infatti.
Che sia portatrice di un grillismo di riporto, di fronda o di frontiera intanto la bocconiana di 32 anni, marito imprenditore, padre immerso nella Confindustria regionale, flglia nata in campagna elettorale che le ha permesso di sottrarsi alla comunione di grilli essiccati da parte del Messia Beppe («grazie, ma allatto») ha vinto raccontando anche la disoccupazione, la soglia di povertà, il disagio sociale di una città dolente. Non la Torino più trionfante secondo un mostro sacro e perbene come Piero Fassino.
Grandi occhi azzurri bistrati di nero a contrastare un possibile messaggio celestiale (ma non c’è pericolo), blindata in completi municipali e scuri, la sindaca vanta un carattere cartesiano e politicamente impertinente («Consigliera, a volte, la trovo insopportabile» si racconta che dall’opposizione esasperava Fassino). Ma incassa un gradimento record nelle classifiche più variegate. Quelle degli istituti di sondaggi. Quelle borghesi e diffidenti dell’establishment all’inaugurazione di MiTo dove presenziava con Beppe Sala. Quelle romane di chi era seduto con lei al ministero dei Beni culturali per risolvere la patata bollente dello sdoppiamento del Salone del libro. Prima che vincesse le elezioni, in un’intervista suo marito Marco Lavatelli avvertì «Chiara è ed è sempre stata una prima della classe, studia molto e si prepara». Pochi giorni fa era ad Assisi, toccava al Piemonte portare l’olio per la lampada di San Francesco, e lei vicino a Chiamparino sorrideva, tailleur nero, unghie rosso lacca. Più che cinque stelle pareva al settimo cielo.
Stando alle stime ha dimezzato il costo dello staff del primo cittadino, 200 mila e qualcosa il suo, 530 mila euro quello dell’ex sindaco Fassino. La giunta è stata composta in un battibaleno, al suo attivo finora duecento e passa delibere mentre da settimane un gruppo si danna per passare i conti al setaccio.
Torino ha un enorme buco di bilancio, tra i tre e i cinque miliardi non si sa ancora bene, pesa anche l’eredità delle Olimpiadi 2006. Intanto lei parte in missione a Dubai, gli investitori servono come il pane. Pochi giorni fa ha rivelato la spesa della sua campagna, 64 mila euro. Una miseria, una vergogna, sarebbe da radiare dall’ambiente politico.
Nel divulgare tali mirabilia (che rientrerebbero nella normalità del lavoro di chi amministra) della sindaca vegana e anti wi-fi che predica il valore di un unico mandato, non si può non tenere conto dell’algoritmo Raggi. E non si sa se il fulgore di Appendino sempre regalmente affettuosa con la collega Virginia, sarebbe così smagliante se la sventurata del Campidoglio non fosse sprofondata in un baratro di disastri facendo di lei, Chiara, oltre che una carta vittoriosa di Grillo, un faro. Anche se Torino, città che funziona, ben governata in passato, è un gioiellino rispetto a dimensioni e complessità di Roma, capitale svuotata da razzie criminali e corruzione politica.
Per comporre la giunta non ha avuto remore a mescolare karma, eresie, appartenenze politiche sideralmente diverse. L’assessore al Bilancio Sergio Rolando ha lavorato con Mercedes Bresso, Roberto Cota, Chiamparino.
Alla Cultura ha scelto Francesca Leon, figlia del compianto economista Paolo, inventrice dell’Abbonamento Musei Torino Piemonte di gran successo, assai considerata a destra e anche a sinistra-sinistra. Il capo di gabinetto, l’ex seminarista Paolo Giordana, secondo l’irato Vittorio Bertola, ex capogruppo M5S messo da parte, è un fu An folgorato dal Pd. Con-divide et impera, la ricetta è antica ma anche molto digitale.
La sindaca gira nei quartieri, ha aperto il municipio alla città. Non si parla di reddito di cittadinanza, c’è più interesse, invece, per il piano strategico che Profumo sta studiando per Torino. E la promessa della porta sbattuta all’Osservatorio sulla Tav? L’uscio è socchiuso appena, ma ha nominato Fabio Versaci, trentenne disoccupato e storico No Tav, presidente del Consiglio comunale.
Di epocale nulla ancora. Non l’inferno, non il paradiso, ma il purgatorio versione sabauda. Lei sa bene che tanti l’aspettano al varco. I grillini integralisti e trombati che storcono il naso per il dialogo con le amministrazioni pregresse. I piddini nervosi che vorrebbero godersi lo spettacolo di vederla tartassata dai big del loro partito. Il centro-destra che l’accusa di non esserci mai. La casta orfana dell’allure degli Agnelli, turbata dal leit motiv della decrescita felice, ora elabora la delusione da sindrome di Stoccolma, mentre alcune anime pie decifrano il Dna della convenienza nella sua scelta politica. Moltissime aspettative, tanto da ricostruire. In questi anni Torino è rinata grazie al Salone del libro, alla cifra di capitale del gusto, al restauro del Museo egizio, a Artissima. Ha vinto l’equazione cultura e turismo. Ma è urgente ritessere una trama manufatturiera, risolvere il cratere aperto dalla partenza della Fiat.
Finora la rivoluzione grillina firmata Appendino appare un fake. È presto, certo. L’impressione è che si stia traducendo in un nuovo codice culturale e politico. La sindaca non ha sottoscritto accordi con la schiatta Casaleggio. Non si strappa i capelli per Grillo. Prima o poi potrebbe sentirsi estranea al Movimento. Questo è il recondito pensiero di Chiamparino che vede in lei l’apertura di un insperato spazio politico. Nella Torino magica l’enigma del futuro della grillina per caso sarebbe stato risolto solo dallo scomparso Rol, il sensitivo più famoso del suo tempo. Al momento, nessun altro.