Il repubblicano ha 70 anni. La democratica 69. Gli Stati Uniti, nell’era del web e dell’esaltazione della giovinezza, saranno nelle mani di un presidente anziano. Chiunque vinca (Illustrazioni di Duluoz)

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Il futuro degli Stati Uniti se lo contendono due settantenni (lui del ’46, lei del ’47) e vederli in piedi ad aggredirsi per interminabili 90 minuti di quel primo duello televisivo, faceva venir voglia di portare loro una sedia, soprattutto a lui che alla fine sembrava il più provato.

Lei molto meno, ma si sa che le donne hanno una resistenza del corpo maggiore quando ce l’hanno anche nella testa. Certo se si guarda ai presidenti degli ultimi decenni della tuttora più potente nazione del mondo, solo uno, Ronald Reagan, citato nel primo scontro da Trump come suo modello politico, aveva 70 anni al momento dell’elezione, e già all’inizio del secondo mandato, scrive Ronald Jr. nella biografia del padre, aveva avuto i primi sintomi dell’Alzheimer, figuriamoci alla fine, a 78 anni, nel 1989.

Però John Kennedy era diventato presidente a 44 anni, Bill Clinton a 47, Barack Obama a 48, George W. Bush a 55 e Richard Nixon a 56. Gli altri, over 60 ma sotto i 70.

Lei, Hillary Clinton, dichiarandosi subito nonna, ha dato un senso alla sua età nella scala dei valori familiari, sapendo quanto le nonne possono essere amate e rispettate dai nipoti cui regalano ogni tanto 10 dollari. Mentre il tentativo giovanilistico di Donald Trump, con quel rado ciuffo biondo, forse parrucchino un po’ “Star Trek”, non è andato a buon fine, anzi pareva un errore sopra la naturale vendetta delle rughe, che in un uomo non più giovane sono spesso di massima seduzione, ma in questo caso no.
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Sarà perché assuefatti dai tempi della lunga parentesi Berlusconi, per la prima volta premier a 58 anni e man mano continuamente invecchiato da ringiovanimenti con bisturi e trucchi, che si circondava ai bei tempi da ministre, onorevoli e toy girl giovani e in tacco a spillo, noi non riusciamo a separare la politica dall’immagine, soprattutto televisiva: il premier Renzi è un belloccio eletto nel 2014 a 39 anni, e quindi giustamente con ministre più o meno coetanee, anche con riccioloni botticelliani, mentre le nuove sindache sono trentenni molto graziose e pazienza se confusionarie come la Raggi: persino i crudelissimi aspiranti premier prossimi, sono giovani e graziosi, e pare che basti.

Quindi: perché gli Stati Uniti hanno deciso di assicurarsi, chiunque lo diventi dei due contendenti, un presidente comunque anziano? In tempi poi di trionfo anche solo apparente della giovinezza, quando gli adolescenti ma anche i ventenni, quelli che già possono richiedere di votare, sono pazzi per divi del web e i fashion blogger anche bambini, ignoti agli ultratrentenni.
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Chi mai tra questi nuovi americani diventerà follower di persone che non fanno parte del loro mondo, che sono stati giovani in era predigitale, quando i ragazzi si preparavano ad andare in Vietnam e le ragazze si sposavano vergini, con lauree prestigiose che servivano a lavare meglio i piatti? «Il presidente è un prodotto» dice il divino Dan Draper della serie “Mad Men” che stanno ridando su Sky Atlantic: è il 1960 e la sua agenzia pubblicitaria sostiene la campagna di Nixon contro Kennedy, anche comprando tutti gli spazi della pubblicità televisiva rimasti per lanciare un lassativo e toglierli al candidato democratico: non c’è pericolo che vinca lui, sostiene il sapiente Draper, Nixon è avanti di 8 punti.
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Poi si sa come è andata a finire ed era meglio per Kennedy se avesse perso. (Nixon comunque ce l’ha fatta nel 1968, come appare pure nella serie finale di “Mad Men”, salvo poi fregarsi col Watergate). Quindi anche se la signora Clinton per ora è avanti nei sondaggi e ha vinto il primo match televisivo contro il suo rivale Trump, è meglio essere prudenti. È vero, il presidente è un prodotto in mano a una squadra di geniali pubblicitari che devono imporli ai consumatori soprattutto televisivi (che al primo incontro erano cento milioni) e loro stessi, i “concorrenti” tipo talent di cuochi, si adattano alla situazione mercantile, “vendono” sul video se stessi e il loro programma riferito a un consumatore preciso: tutto quello che i sondaggi hanno concluso possa interessare chi è di qua, chi è di là e chi non sa ancora se gli conviene essere di qua o di là. È in vendita non solo il programma ma anche il corpo mediatico del futuro presidente: una vera guerra questa, anche sanguinosa, pure in questo caso canuto.

Lui, Donald, un po’ sovrappeso come tanti uomini anziani non solo americani, stretto in un completo blu (o nero?) che pare una corazza contenitiva, una cravatta celeste, lo sguardo privo di lampi, la bocca che si arrotonda nell’arringa, mai un sorriso, le mani che lo sostengono al leggio e che, una alla volta, si agitano per aria minacciose, con l’indice teso nel tentativo di ipnotizzare l’enorme platea. Raramente, dall’opportuna distanza, capace di volgersi verso di lei, la vispa rivale, quasi intimorito (o infastidito, una femmina…). Troppo ansioso e rustico per piacere alle signore di successo, anche repubblicane. Lei vestita di rosso, colore che attira gli sguardi, lontano da ogni luttuoso rigore, un completo pantalone semplice e classico da agile professionista, gioiellini d’oro modesti, che appena si intravedono alle orecchie, al collo al polso: una vera signora. Matura, col viso curato e luminoso, lisciato ma con qualche ruga per non infastidire le coetanee.

Espressione sempre serena, anche sorridente, pochi gesti, voce ferma e gentile: quel tipo di donna insomma, troppo sicura e sapiente per non risultare antipatica al maschio tradizionale, anche democratico. Poi si sa, ciò che dovrebbe contare sono le risposte alle domande del giornalista-arbitro: quello che faranno ognuno a suo modo per un grande paese, che tra un insulto e l’altro, espresso con urbanità ma sempre insulto, viene descritto da tutti e due come precipitato nel massimo disastro economico, sociale, umano, politico, che solo lui o lei salveranno: un’America miserabile di cui non ci eravamo accorti, pensando al resto del mondo. Certo noi italiani siamo impallinati più volte al giorno da un’ilare televisione che prospera sulla politica-fiction dedicata alle malefatte del governo più che ai suoi eventuali meriti. Lo spettacolo americano, con le due prossime puntate, dovrebbe mettere in guardia anche noi, già prostrati dai quotidiani fastidi del Sì e del No: non può essere la televisione, con tutti i suoi necrofori dell’audience, neppure quando lo scontro è a livello presidenziale, con tutto il suo bagaglio di facili promesse e di accuse reciproche di nefandezze passate, a governare una nazione.