Pubblicità

Non piangere Ecuador

aaaa-jpg
aaaa-jpg

Un Paese devastato da povertà antiche e terremoti recenti. Ma con una voglia di vivere unica al mondo. In un grande racconto d’autore (Foto di Neige De Benedetti)

aaaa-jpg
Di fronte ai grandi rivolgimenti della natura ho sempre in mente la massima yiddish «l’uomo pensa, Dio ride». Duemilacinquecento scosse di terremoto, però, sono una risata che non finisce mai. Milan Kundera una volta scrisse: «Mi diverte pensare che l’arte del romanzo sia venuta al mondo come eco della risata di Dio». Prima del romanzo, anche l’umanità forse si divide in chi quella risata la sente e chi no.

Kundera lì parlava del Gargantua di Rabelais, la prima grande narrazione europea, comica e dissacratoria, in cui il popolo prende voce, si fa beffe di signori, prelati, ricchi, poiché tutto sommato ha meno vincoli, più libertà. Dopo il lungo viaggio di quello stesso popolo attraverso la Storia, in “Vita e destino”, cinquecento anni dopo Vasilij Grossman racconta le vicende di Ivan, un uomo incastrato nella rivoluzione popolare. «Il tempo mai potrà amare i figli del passato. Così è il tempo: tutto passa, lui resta». Per me Ivan è sempre stato icona: un disadattato che non sente la risata di Dio, che rimane prigioniero del passato.

Ecco, di Henry Pilco, prima d’incontrarlo, a Quito, penso sia uno degli infiniti alterego di Ivan. Me lo immagino così. Mi bastano però alcune parole, e anzi ancora di più il suo primo sguardo obliquo e insistente, per capire che invece appartiene all’altra specie umana, quella di Rabelais, gli invincibili, gli ironici. È lui a portarmi in giro per l’Ecuador, è lui a mostrarmi in quale modo il terremoto del 16 aprile, con quella quantità incredibile di scosse che continuano a seguirlo, e le maglie del crimine organizzato hanno infierito contro gli ultimi, contro le popolazioni rurali della capitale della costa; di nuovo, solo e contro il popolo.
[[ge:rep-locali:espresso:285239019]]
«Ora in Ecuador, a Quito», mi dice Henry, «è pace. Pace tra i Latin King e Los Divinos». È pace già da qualche anno, e sta lì ad assicurare che le bande armate, partite con la storica Mama Lucha, fondata dalla amatissima Lucila Endara, non si faranno più la guerra. Sono i giorni in cui accade anche nella vicina Colombia, dove il guerrigliero Farc Timochenko sigla la pace, con penna ricavata da un bossolo di Ak-47, con il presidente Santos, nemico giurato del gruppo che ha venduto tonnellate di coca.

È pace. Per lo meno apparente, in questo angolo occidentale di Sudamerica. Una pace, a Quito, su cui veglia la Virgen alata, la Madonna con le ali, alta 45 metri e volante su di un drago poggiato sopra un globo terrestre; è impossibile non vederla, affaccia sopra il centro storico coloniale, dà le spalle ai quartieri dei poveri, le baracche arrampicate sui costoni del Panecillo. È iperrealista questa grande virgen - come tutta l’arte sacra ecuadoriana, le statue dei santi e dei Cristi e delle Madonne con bottoni di madreperla al posto degli occhi sgranati e spaventevoli, capelli veri e crespi, specchietti nelle bocche a simulare la lucidità della salivazione - ed è magica allo stesso tempo, una realtà che balla tra questo mondo e quell’altro, quello simbolico delle corrispondenze divine.

Henry naturalmente è in quell’altro mondo che vive, non quello del simbolo ma quello arrampicato e precario dei poveri, ed è lì che lo andiamo a incontrare, abbiamo appuntamento davanti alla sua casa che è un magazzino di una stanza con una tenda di plastica nera appesa a metà a dividere cucina e letti. Henry ultimo ci è nato, anzi erano nati in due, il suo gemello è morto che avevano tre mesi, è rimasto a metà. Poi, a 17 anni, con divina ironia, riesce a scrollarsi tutto dalle spalle, a farsi in più traino per altri. Oggi lavora con Dya, un’associazione che è partner dell’Unicef, e strappa i bambini dalla strada e dalle bande armate. Lo fa usando il quechua, la lingua dei nativi, degli emarginati. «Così mi sentono come uno di loro», dice. «Li guardo da lontano, non faccio domande. Quando ero per strada io, se qualcuno faceva domande scappavo. Porto una palla, giochiamo a pallone. Dopo una settimana vogliono dirmi i loro nomi. È il primo passo perché capiscano che hanno bisogno d’aiuto».

Sono decine di migliaia, solo a Quito, i bambini che a quattro o cinque anni iniziano a lavorare per la propria famiglia o per le organizzazioni criminali. Henry ha undici tra fratelli e sorelle, e a cinque anni sua madre lo manda per le strade a vendere caramelle e a lucidare scarpe per la Mama Lucha, che gestisce ogni business illecito, spaccio di droga, estorsioni, furti, rapimenti e controllo del territorio attraverso i bambini-venditori ambulanti. Dalla spazzatura Henry, da piccolo, raccoglie frutta: in parte la vende al mercado, altra la mangia. A casa non c’è cibo, solo un padre che beve e che ogni sera lo picchia e poi lo immerge in acqua ghiacciata per non far attaccare i lividi. A sette anni la sua vita cambia. Un giorno il controllore di un bus in corsa lo spinge fuori dopo averlo trovato senza biglietto. Henry rotola a terra, e s’imbatte nella cattiveria della gente. «Nessuno mi ha aiutato», dice. «Ero povero, sporco, malmesso. Facevo paura alle persone. Solo un signore mi ha dato una mano, mi ha regalato due polli. Ho capito cos’è sentirsi importante». Decide allora di iscriversi a scuola. A dieci anni inizia a farsi di basuco, lo scarto della coca, che per strada Mama Lucha vende a un dollaro a botta. Quello che guadagna lo spende così. A quindici anni smette, inizia a lavorare come muratore, e si fa aiutare da una fondazione che, dice, «mi ha insegnato cosa sono i diritti». Cosa sono, chiedo. Risponde : «Sentirsi importanti, servire a qualcosa». Ci porta a vedere due bimbi piccolissimi che vendono per strada con le madri. Ci avviciniamo, ci vendono delle gomme da masticare. In cambio li fotografiamo. «È pieno», dice Henry, «di bambini come ero io da piccolo».

Con Henry poi saliamo in macchina e viaggiamo verso la costa, nella provincia di Manabì e di Esmeraldas, le più colpite dal terremoto. «Il terremoto è ingiusto», dice Henry nelle sei ore di viaggio. «Ha colpito solo i più poveri. Sono loro che dopo aver perso tutto si ammalano anche di Zika. Il terremoto ha rotto tutto, anche le tubature, e poi è arrivata la stagione delle piogge. C’era acqua stagnante ovunque, era pieno di zanzare». Dal giorno del terremoto sono stati registrati più di duemila nuovi casi di Zika. Quelli reali saranno molti di più, tre casi su quattro non manifestano sintomi. È una malattia nascosta. È possibile che i contagiati siano decine di migliaia. Si trasmette per via sessuale. «La prossima generazione sarà tutta malata di Zika», dice. Ci spruzziamo di Autan, abbiamo una paura fottuta di quei piccoli insetti.

¡Ecuador ya no se vende!, “l’Ecuador non è più in vendita”, siamo quasi arrivati sul mare, è una grande scritta a spray rosso su un muretto d’argilla lungo la strada nazionale che sale verso La Chorrera, una volta villaggio di pescatori da vita alla giornata, oggi rifugio informal: tende tirate su sei mesi fa un po’ come è venuto dalle famiglie terremotate; lettere scolorite, che probabilmente risalgono ai primi periodi della presidenza di Correa, che dopo dieci anni e tre mandati dovrebbe passare la mano nel 2017. «L’Ecuador non si vende» è lo slogan della Revolución ciudadana, la “rivoluzione civile”, un nuovo modello di socialismo globalizzato (un modo di ripensare da zero il «rapporto tra sviluppo e democrazia» delle sinistre del mondo, come ha detto Ingrid Betancourt), antiliberista ed ecologista - seppur basato sul petrolio e sui difficili rapporti con i nativos che abitano le riserve di giacimenti - che il leader di Alianza País ha lanciato fin dal suo primo insediamento del dicembre 2006, sei anni dopo il crollo della moneta locale e l’adozione del dollaro americano. Henry ci racconta del 7 gennaio del 2000, quando in un giorno solo il sucre nazionale ha perso i due terzi del suo valore, riducendo “i borghesi”, dice, alla fame. «Per noi poveri non è cambiato niente. Sembrava anzi che la storia ci desse ragione». Due giorni dopo il presidente annuncia la nuova moneta nazionale: il dollaro americano. Molte famiglie lasciano il paese, vanno negli Usa, in Messico, in Cile.«Avevamo paura che finisse tutto. Chi è partito e ha venduto la casa per mille dollari, se poi è ritornato l’ha ricomprata per sessantamila».

La Chorrera è un agglomerato di tende che stanno su per miracolo. Questa gente finge di non crederci, ma è possibile che rimarrà a vivere qui per sempre. Manca l’acqua potabile, l’ha portata Unicef in grandi serbatoi blu. Manca l’elettricità. Un’anziana s’avvicina e mi chiede di scrivere che a loro serve assolutamente (prendo nota): un tavolo, due sedie, cassetti per i vestiti. Suo nipote s’accoda e aggiunge: una radiolina a pile. Poi sorride: e cibo, dice. Poi dice: gli sciacalli. Non capisco, e chiedo. «Gli sciacalli hanno frugato tra le macerie della nostra casa e hanno portato via tutto, anche la mia radiolina». Alla nonna chiedo se crede in Dio. «¡Sì!». Se dopo il 16 aprile ci crede di più o di meno. «Di più». Perché. «Perché mi ha lasciata viva, sono vecchia e se voleva mi prendeva». E gli sciacalli? «Lì non c’entra Dio, c’entrano gli uomini».

Entriamo nella tenda di Ruth, una donna dall’età indefinibile. È lei a chiamarci. Ci mostra il piede, una grande cicatrice. «Il terremoto ha spazzato via tutto», dice. «Anche il coraggio. Abbiamo paura a stare chiusi dentro le tende, temiamo ci crollino addosso. Molti si sono messi a bere. Le scosse non sono mai finite». C’è la figlia di due anni e cinque giorni, Teresa Guadalupe Esmeralda, che dorme dentro un fagotto tra materasso e tenda. Ruth frigge patacones, banana salata a fette, l’alimento nazionale. Parla della madre. Fissa un punto, dove c’è un palo che regge la tenda. Poi capisco, è un santuario: una fototessera della madre morta da poco è attaccata al legno con la colla. «Se siamo vivi è grazie a lei», dice, e indica la foto, gli occhi sono lucidi. Henry ci spiega che qui sulla costa l’unico modo per campare è pescare. «Molti sono rimasti senza lanchas, non pescano più». È in uno slargo tra quattro tende, mentre parla con un uomo. «Il padrone per cui lavoravo è morto nel terremoto. Non abbiamo più che mangiare». Avrà cinquant’anni quest’uomo, il volto rugoso, di fianco a lui la moglie di diciotto. Tre figli avuti con la prima moglie. Risaliamo sull’auto, Henry ci vuole mostrare la scuola di Coaque, costruita con tende di Unicef, dopo che quella di sempre è crollata. Passiamo da Pedernales, l’epicentro del sisma, cittadina di mare. È distrutta. Ogni cosa è rasa al suolo. Una volta era località turistica, ora gli hotel si sono sbriciolati uno dopo l’altro. «Sai il domino?», chiede Henry. Non c’è più niente, neppure le macerie.

Nella scuola di Coaque conosco Diana Andrade, è orfana, ha nove anni. Ha iniziato la scuola solo da poche settimane, non sa ancora leggere, vive a tre ore a piedi da lì, la scuola più vicina alla sua casa dall’altra parte della montagna. Partecipa al programma Unicef di “nivelation”, livellamento. Due o tre anni in uno, così i bambini più lontani si mettono alla pari con gli altri. «Diana ogni giorno cammina sei ore, e lo fa scalza», mi dice la moglie del nonno, che è venuta apposta per incontrarmi. «Una volta al cancello, infila le scarpette della divisa della scuola. Così non si rovinano». Chiedo a Diana se le piace studiare. «Sì. Così imparo a leggere e a contare».

Cosa diventerai da grande? «Avvocata». Ne è sicura. La nonna all’idea si schermisce. Io fisso Diana, lei mi fissa di rimando, gli occhi sono due punti di nero cobalto. Ha nove anni, ma quegli occhi sono adulti, e mi perforano. Sorride. Sta sorridendo alle sue stesse parole, penso. Forse non ci crede neanche lei alla storia dell’avvocata, forse sì. Continuiamo a guardarci, lei non stacca gli occhi. Poi ride. La sua risata è forte, non te l’aspetti da una bambina così minuta, è più piccola della sua età, più bassa, più magra. È di me che si prende gioco?, mi chiedo. Che l’alta eco della risata di Dio le stia suggerendo qualcosa su di me all’orecchio? Poi sento un’altra forte risata. Mi giro. È Henry. Lui e Diana si guardano, adesso, e io sono l’unico che ha bisogno di parole.

L'edicola

La pace al ribasso può segnare la fine dell'Europa

Esclusa dai negoziati, per contare deve essere davvero un’Unione di Stati con una sola voce

Pubblicità