Quando Alberto Moravia recensì sull'Espresso 'Io sono un autarchico' di Nanni Moretti
Ecco la recensione che Alberto Moravia scrisse sul primo lungometraggio del regista romano. È stata pubblicata sul primo numero del 1977 dell’Espresso
Il comico si annida nelle cerniere della storia come una ruggine corrosiva. Esso nasce infatti da cambiamenti radicali nella scala dei valori, per cui ciò che era reale e dunque sacro ieri, diventa irreale e dunque dissacrato oggi. Il comico rispetta il reale: e attacca invece l’irreale e appunto come una ruggine lo corrode fino a non lasciarne più nulla. Ma il comico si manifesta in arte a cose fatte, come è giusto del resto: le muse erano figlie della memoria. I tre capolavori comici che segnano il passaggio dall’alienazione medievale al realismo borghese, il Don Chisciotte, l’Orlando Furioso e Gargantua, sopravvengono, appunto, quando questo passaggio è già avvenuto da un pezzo. Chi invece vive il passaggio dal reale all’irreale, è probabile che non lo senta come qualche cosa di comico ma di penoso.
Questo solenne preambolo vorrebbe essere una riflessione in margine alla nota che oggi dedichiamo al film “Io sono un autarchico” di Nanni Moretti. Il film era proiettato nella sala del Filmstudio; e poiché siamo arrivati per primi o quasi, abbiamo avuto agio di osservare gli spettatori uno per uno via via che entravano. Chi erano questi spettatori? Erano tutti giovani della piccola e media borghesia studentesca, intellettuale e paraintellettuale romana, il pubblico cioè solito del Film-studio.
Del resto, la loro origine sociale e culturale costituiva il messaggio inviato ai quattro venti dai loro vestiti, tutti senza eccezione del genere lanciato negli anni Sessanta dalla moda beat e hippy. Questi vestiti oggi li portano tutti; ma si vorrebbe aggiungere: tutti salvo coloro che non li portano. Cosa voglio dire con questo? Voglio dire che negli anni Sessanta c’è stata una rivoluzione che, pur essendo in partenza politica, è sfociata alla fine soprattutto nel costume, cioè nel linguaggio, nel comportamento e nell’abbigliamento.
Questa rivoluzione è stata recepita soprattutto dalle nuove generazioni, e tra le generazioni più anziane, soltanto da coloro che speravano, in quegli anni, in un rinnovamento della società italiana. Ma un conto è sperare in un rinnovamento e un conto è “essere” questo rinnovamento. La prima maniera è consapevole; la seconda, abbastanza spesso inconsapevole. I giovani, dopo il ’68, fino a che punto sono consapevoli di “costituire” il rinnovamento della società italiana? La risposta ci è venuta proprio dal pubblico del Filmstudio, durante la proiezione del film di Moretti, pubblico tutto quanto costituito, appunto, di giovani.
Il film racconta le avventure e disavventure private e pubbliche di un gruppo di teatranti, impegnati nella messinscena di uno spettacolo “off”, in una delle tante cantine romane. Le idee teatrali del gruppo oscillano, come è giusto, tra Artaud, il Living Theater, l’happening, il teatro gestuale e così via. Queste idee trovano espressione in un certo linguaggio, in un certo modo di vestirsi, in un certo comportamento che, come ci siamo subito accorti, accomunavano quella sera gli attori sullo schermo agli spettatori nella platea. Così avevamo, in qualche modo, tre spettacoli in uno: quello teatrale che costituiva l’argomento del film, il film, l’accoglienza che il pubblico faceva al film. Perché dico che erano tre spettacoli in uno? Perché Nanni Moretti non prende sul serio lo spettacolo teatrale che è l’argomento del suo film ma se ne serve per mettere in caricatura una certa mentalità: dal canto suo il pubblico si riconosce nei personaggi del film e mostra di apprezzarne la caricatura. Quanto a dire che gli spettatori quella sera si divertivano a vedere messi in caricatura se stessi, cioè la controcultura di cui essi facevano parte.
Ora cosa si può dedurre da questa partecipazione ad una comicità che riguarda attori e spettatori in egual modo? Si può dedurne, pensiamo, che il comico una volta indicava il passaggio da un’età storica ad un’altra. Adesso, invece, tutto va più in fretta e ciò che era reale e dunque sacro soltanto alcuni anni or sono, oggi è già irreale cioè dissacrato. Infatti, la presa in giro di Moretti e la cordiale partecipazione del pubblico giovanile a questa presa in giro, partecipazione quasi “privata” (come di amici e sodali; infatti ridevano anche quando non c’era nulla da ridere) lo confermano. “Io sono un autarchico” è un buon film comico perché è un film che rivela la consapevolezza critica del regista nei confronti della società giovanile che si è rivelata negli anni Sessanta. Del resto il titolo è indicativo. Secondo il titolo, la rivoluzione del ’68 sarebbe almeno in parte autarchica; quanto a dire che, sotto di essa, spuntano gli eterni problemi della nostra piccola borghesia mediterranea. Tra gli attori, tutti molto disinvolti, bisogna ricordare soprattutto Fabio Traversa nella parte del regista e lo stesso Moretti in quella di protagonista.