L'Italia attira manodopera poco qualificata ed è l'unico dei grandi stati europei in cui è più probabile per chi non è autoctono trovare impiego avendo un basso titolo di studio. Ecco come funziona realmente l'occupazione per i non italiani. Senza ricadere negli slogan populisti

Un Paese che importa braccia ed esporta cervelli, capace di attirare soprattutto lavoratori non qualificati, preferibilmente con un basso titolo di studio. E dove anche l'immigrato che trova un impiego viene spesso etichettato come "ladro" di posti altrui. La gestione dell'immigrazione in Italia è uno dei temi più sentiti dall'opinione pubblica: ma come funziona davvero il mercato del lavoro per i migranti?

«L'occupazione degli immigrati è la vera sfida del futuro», spiega Maurizio Ambrosini, sociologo italiano noto per i suoi studi sulle migrazioni e docente di Processi e politiche migratorie all'Università Statale di Milano: «Il nostro dibattuto pubblico insegue dei fantasmi: discutiamo tutti i giorni di asilo politico, dimenticando che i richiedenti sono il 3 per cento degli immigrati in Italia» e perdendo di vista la quasi totalità dei 5,8 milioni di stranieri che producono, secondo la Fondazione Leone Moressa, un Pil di 127 miliardi di euro. In altre parole il lavoro degli stranieri "vale" più del fatturato del gruppo Fiat-Fca. Ma le loro condizioni sono molto diverse nei vari paesi del'Unione Europea: e l'Italia in questo scenario ha poco di cui essere fiera. Ecco alcuni punti per capire nel dettaglio come cambia la situazione nei quattro paesi più popolati dell'Ue.

Stipendi ridotti e rischio povertà più alto.
Gli immigrati, limitandoci a considerare solo le persone che sono nate fuori dal loro paese di residenza, hanno un più alto rischio di povertà rispetto ai cittadini francesi, tedeschi, italiani e spagnoli.


Rischio di povertà ed esclusione sociale tra i migranti arrivano ad essere il doppio in Francia e Spagna rispetto ai nativi e in Italia toccano quasi la metà degli stranieri, mentre il rischio povertà riguarda un italiano su quattro. Essere stranieri, in sostanza, significa essere pagati di meno: ogni anno, nelle tasche di un migrante nato fuori dall'Europa entrano in media seimila euro in meno rispetto a un collega nato in Italia o in Germania. Un gap che diventa di settemila euro in Spagna e quasi ottomila in Francia.

La disparità di salario diminuisce se si guarda all'immigrazione tra stati europei: tuttavia la maggior parte degli stranieri presenti in sud Europa provengono da nazioni ben lontane dal vecchio Continente (dei 5,8 milioni di migranti sul territorio italiano, 3,9 sono nati fuori dall'Ue).



Che sfortuna avere un cognome straniero.
Andare a vivere in uno stato diverso rispetto a quello dove si è nati aumenta la possibilità di finire nelle fasce più povere della popolazione. Una prima causa possono essere "problemi di discriminazione", commenta il sociologo Ambrosini mostrando le ricerche portate avanti dall'Organizzazione internazionale del lavoro di Ginevra. Avendo in mano inserzioni di lavoro di diversi Stati europei, lo studio ha analizzato le risposte ricevute da due giovani con stessa età e genere ma con firme che mostrano un cognome nativo nel primo caso e straniero nel secondo. «Il giovane nativo ha ricevuto molte più proposte di colloquio», continua l'esperto di migrazione.

L'esperimento è stato testato anche da un team tedesco nel 2011, e ha mostrato come in Germania un cv con un cognome tedesco aumenti del 29 per cento le chance di ottenere risposta rispetto a quello di un candidato con un cognome appartenente all'ampia minoranza turca. Un'Europa in cui il peso di un nome è più forte rispetto alla formazione del candidato: il trend della "stranieri Spa", infatti, vede immigrati più istruiti dei colleghi nativi o occupati in posizioni inferiori rispetto al loro livello di istruzione.

Come segnalano i dati dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), in Francia, Germania, Italia e Spagna avere un più alto livello di educazione permette sia ai nativi che agli stranieri di trovare più facilmente lavoro ma con un tasso alto per i primi e decisamente ridotto per i secondi. Il risultato è che per avere le stesse chance dei nativi di ottenere un'occupazione, gli immigrati devono avere un livello di educazione assai più alto.

Lo strano caso italiano.
In Italia, però, per un immigrato è più facile trovare lavoro se ha una bassa educazione. Il Belpaese è l'unico dei quattro stati analizzati dove gli stranieri che non hanno finito la prima media hanno una percentuale di occupazione maggiore rispetto agli italiani con lo stesso livello educativo. «Una famiglia italiana che ha portato il figlio fino al diploma non lo manderebbe mai a lavorare in un'impresa di pulizie - precisa Ambrosini - Gli immigrati accettano lavori che i giovani italiani, spesso figli unici e iscritti all'università, non vogliono più fare».


Prova ne è che durante la crisi economica, stando all'Istat, l'occupazione dei migranti è aumentata in termini assoluti di 850mila unità, tanto che oggi è straniero un occupato regolare su dieci. Gli immigrati che in sud Europa trovano un impiego devono quindi accontentarsi di cattivi lavori, «motivo di frustrazione e delusione per i più istruiti», continua il sociologo piemontese, che è anche responsabile scientifico del Centro studi sulle migrazioni nel Mediterraneo di Genova.
Da questo fenomeno nasce la tanto abusata formula politica "ci rubano il lavoro".

Dimmi che immigrato sei e ti dirò dove vai.
Il procedimento di selezione avviene direttamente nei paesi di origine. «In una famiglia filippina, per esempio, la figlia che ha studiato scienze infermieristiche cercherà un posto in Stati Uniti, Australia o Regno Unito, mentre la figlia sulla cui istruzione non si è investito verrà a fare la colf in Italia o in Spagna», continua Ambrosini.


L'Italia calamita stranieri poco qualificati perché è «la terra dei lavori modesti per gli immigrati», dall'industria edile all'occupazione domestica e assistenziale. «Non abbiamo un grande bisogno di immigrazione qualificata - continua l'esperto di migrazioni - visto che il nostro mercato del lavoro si allarga verso il basso, offrendo pochi posti qualificati anche alle persone native, mentre sono ben più numerose le posizioni aperte in agricoltura, turismo e ristorazione».

A chi piace la manodopera sottopagata.
«Se il paese ripartirà avrà ancora bisogno di immigrati. Se non avremo più bisogno di loro, è perché questo paese sarà andato in rovina». Per il sociologo in Italia la presenza della manodopera (spesso sottopagata) straniera ha aiutato i piccoli imprenditori a sopravvivere, incentivando gli italiani ad avanzare di carriera muovendosi verso lavori più specializzati. «Gli immigrati sono più occupati nelle regioni e nelle province dove ci sono redditi più elevati». In altre parole, l'occupazione straniera ha portato vantaggi per le piccole imprese («soprattutto di logistica e pulizie») ma ha peggiorato i salari dei lavoratori italiani che un tempo svolgevano le occupazioni ora nelle mani degli stranieri.

Mestieri poco specializzati a parte, per uno straniero sembra difficile fare carriera. Tanto che in Italia la strategia usata dagli immigrati per migliorare la propria posizione è il passaggio al lavoro autonomo (con 600mila partite Iva aperte). In altre parole, siamo di fronte a stranieri che, secondo il docente della Statale di Milano, «stanno ripercorrendo lo stesso itinerario delle classi popolari italiane».

Quanti "Neet" tra gli immigrati
L'86 per cento dei rifugiati è accolto in Paesi del terzo mondo, ma in Italia «ci preoccupiamo solo dei richiedenti asilo per la loro visibilità: arrivano in condizioni drammatiche e chiedendoci aiuto suscitano le nostre le paure - continua Ambrosini - Possibile che non prendiamo in considerazione la stragrande maggioranza degli stranieri che arrivano in Italia in ben altre condizioni ma comunque faticano a integrarsi?». Visti come forza lavoro, infatti, in Italia i migranti potrebbero contribuire ancor di più all'economia se si considera che il 35 per cento dei giovani stranieri tra i 15 e i 29 anni non sono né occupati né inseriti in un percorso di istruzione (Neet).

Si tratta della percentuale più alta in Europa, secondo la Fondazione Leone Moressa, cartina al tornasole di un paese dove un giovane italiano su quattro è a casa senza lavoro e non segue alcun percorso di formazione. «L'educazione è fondamentale per l'integrazione dei migranti - si legge su una recente raccomandazione dell'Ocse - la chiave per farli entrare nel mondo del lavoro dei paesi ospitanti».

Eppure neppure un'alto livello di educazione sembra essere capace di sottrarre un immigrato al suo destino di lavoratore sottopagato. Almeno nella vecchia Italia.

*L'articolo è stato realizzato grazie al progetto sul Datajournalism dell'European Youth Press. Hanno collaborato Yevheniia Drozdova, Gabriela Behounkova, Damiano Bacci e Daria Sukharchuk