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Non è soltanto la fabbrica più grande del Sud Italia, con 11.800 persone che lavorano nell’impianto che domina sulla città dei due mari, ma è anche un’importante realtà produttiva per il Nord: lo storico stabilimento di Cornigliano, a Genova, conta ancora oggi più di 1.700 dipendenti, per un totale che raggiunge i 15 mila se si considerano tutte le attività del gruppo, dislocate fra Milano e Novi Ligure, Racconigi e Porto Marghera.
La carta che resta nelle mani di Renzi si chiama vendita. Il processo è appena iniziato e, in base alla legge speciale voluta dal governo, dovrebbe in teoria concludersi entro il prossimo 30 giugno. Il problema è che il premier, in questo momento, si ritrova un po’ nelle condizioni disperate di Daniel Craig-James Bond nel film “Casino Royale”, a metà della partita di Texas hold ‘em con il banchiere-gangster Le Chiffre.
Al tavolo dove si decideranno le sorti dell’Ilva, infatti, si è seduta una nutrita compagnia di giocatori che potranno studiare a fondo le carte dell’Ilva, per molti una concorrente, e che in linea di principio potrebbero nascondere un desiderio inconfessabile: veder l’acciaieria di Taranto chiudere e sparire per sempre.
Proprio in questi mesi, infatti, l’Europa siderurgica sta combattendo una durissima battaglia per la sua sopravvivenza. Il tema è quello, noto, dell’eccesso di produzione: nel mondo si fonde più acciaio di quello che si consumi e la Cina, dove questa sovraccapacità è più marcata, sta invadendo gli altri mercati con prodotti venduti sotto costo.
Per frenare il fenomeno, Bruxelles ha introdotto nuovi dazi e ne sta studiando altri. Il problema è che, sempre in Europa, gli interessi sono molto variegati: chi stampa materiali semi-lavorati è ben felice dei prezzi stracciati e non ha interesse a frenare il flusso di importazioni da Oriente. E chi opera sull’intero ciclo dell’acciaio, come fa l’Ilva, fondendo il minerale grezzo negli altiforni e arrivando ai prodotti finiti, accoglierebbe la chiusura di Taranto con gioia. Perché lo stabilimento, opportunamente rimodernato, potrebbe godere di vantaggi competitivi che metterebbero in ulteriore difficoltà numerosi concorrenti.
Per vedere come questo quadro pesi sulla vendita basta partire dai gruppi che hanno manifestato il loro interesse ad acquistare l’Ilva. I tre nomi di produttori di acciaio più noti, almeno in Italia, sono il colosso Arcelor Mittal, controllato dal tycoon di origine indiana Lakshmi Mittal, il gruppo mantovano Marcegaglia e quello cremonese Arvedi.
Ebbene, tutti e tre si presentano all’appuntamento con l’Ilva con conti segnati in maniera più o meno profonda dalla crisi. Arcelor, quartier generale a Londra, sede legale in Lussemburgo, nel 2015 ha visto il giro d’affari crollare a 63,5 miliardi di dollari, dai 79,2 del 2014, mentre le perdite sono salite da uno a quasi otto miliardi di dollari. Molto elevati i debiti, che al netto della liquidità presente in cassa ammontano a 15,7 miliardi di dollari.
Vale la pena sottolineare il commento che Lakshmi Mittal in persona ha fatto a questi dati: «Il 2016 sarà un anno ancora difficile», ha detto, esprimendo però incoraggiamento dagli annunciati tagli alla sovraccapacità produttiva mondiale. Un fatto che, se Arcelor fosse alla fine il compratore, dovrebbe preoccupare non poco chi spera che l’Ilva abbia un futuro.
QUEI COMPRATORI PIENI DI DEBITI
Tensioni in parte analoghe denunciano anche i dati di Marcegaglia e Arvedi, fermi all’anno 2014, ultimo bilancio disponibile. Il gruppo mantovano, guidato dai fratelli Antonio e Emma Marcegaglia, nel 2014 ha perso 36,5 milioni di euro, mentre Arvedi è riuscito a chiudere l’anno in positivo, con un utile netto di 15,8 milioni. Entrambi i gruppi, però, presentavano livelli di indebitamento piuttosto elevati: 1,5 miliardi di euro per Marcegaglia, che lo scorso anno ha effettuato un piano di ristrutturazione dividendo le attività in diversi settori operativi, 801 milioni per Arvedi. Difficile dire che impatto hanno avuto sui bilanci gli sconquassi di mercato del 2015, il «very difficult year» descritto da Lakshmi Mittal: i due gruppi potrebbero aver avuto dei benefici sui prezzi dei semi-lavorati e dei rottami che utilizzano per le loro lavorazioni ma va detto che il boom delle importazioni dall’Asia potrebbe aver danneggiato anche loro.
Il problema è che per rimettere in sesto l’Ilva servono investimenti ingenti, stimabili in una gamma che varia da 2 a 2,5 miliardi di euro. Trovare un acquirente solido è dunque una necessità, se non si vuole ripetere l’esperienza dei cosiddetti “capitani coraggiosi” chiamati nel 2008 a salvare l’Alitalia, poi travolti dalla crisi della compagnia aerea.
Da più parti si è evocata una cordata italiana anche per l’Ilva ma se l’obiettivo è salvare l’intero gruppo, compreso l’enorme stabilimento di Taranto, è obbligatorio per i tre commissari straordinari dell’azienda, Piero Gnudi, Enrico Laghi, Corrado Carrubba, far sì che la scelta cada su chi ha un vero interesse a rilanciarlo, non a smembrarlo per rendere più facile la chiusura degli impianti che necessitano di investimenti onerosi.
Fin qui, da questo punto di vista, i segnali non sono stati incoraggianti. Enrico Bondi, il commissario scelto dal governo Monti nel 2013, aveva disegnato per l’Ilva un progetto molto ambizioso, con investimenti tesi a porre l’acciaieria di Taranto all’avanguardia dal punto di vista tecnico e ambientale. Il piano aveva incontrato l’esplicita opposizione degli industriali, e in particolare della Federacciai, la Confindustria dei siderurgici, il cui presidente Antonio Gozzi aveva sparato ad alzo zero contro Bondi.
Una posizione le cui contraddizioni avevano fatto storcere il naso a molti già allora: Gozzi guida la Duferco, un gruppo che nel 2014 ha ceduto all’azienda statale cinese Hebei Iron Steel il 51 per cento delle proprie attività di commercializzazione di acciaio, una scelta che non gli ha impedito nei giorni scorsi di presentarsi a Bruxelles alla testa del corteo di operai e imprenditori del settore che protestavano contro le vendite sottocosto dei cinesi. E che tornano a manifestarsi anche oggi, visto che due suoi parenti, Massimo e Bruno Bolfo Jr, usciti da Duferco qualche anno fa, hanno presentato attraverso la società svizzera di import siderurgico Trasteel una manifestazione d’interesse per l’Ilva, chiedendo di andare a vedere i conti del gigante tarantino. «Si continua a parlare di una cordata italiana ma dove sono gli industriali italiani? Tra aziende in crisi, trader italiani e stranieri e operatori troppo piccoli per un’operazione così impegnativa, siamo molto preoccupati. Dopo un anno perso in una demenziale nazionalizzazione ora non si può sbagliare un colpo», dice Marco Bentivogli, segretario generale della Fim-Cisl.
CHI MIRA ALLO SPEZZATINO
Sta di fatto che, sempre nel 2014, il governo Renzi aveva sostituito Bondi, senza mai spiegarne in maniera convincente i motivi, e il premier aveva affidato ad Andrea Guerra, suo consulente personale, la regia di un piano di rilancio che doveva passare prima attraverso il risanamento, per poi arrivare alla vendita.
In quest’ottica erano arrivati all’Ilva alcuni nuovi manager con un curriculum molto forte, prima il direttore generale Massimo Rosini, ex Indesit, poi Maurizio Munari, ex Fiat. La nuova squadra aveva ottenuto risultati promettenti. Aveva riconquistato importanti clienti, come la stessa Fiat, che si era rivolta all’estero quando le difficoltà dell’Ilva avevano messo in pericolo alcune forniture destinate allo stabilimento di Melfi, il più prossimo geograficamente. Ed erano riusciti, nonostante le criticità legate al fatto di operare in un’azienda sotto commissariamento, a tornare tra i fornitori di alcune grandi multinazionali.
Questo risultato era stato possibile anche grazie alla decisione presa in precedenza da Bondi di riattivare lo stabilimento di Genova, dove viene prodotta la cosiddetta banda stagnata, che serve ad esempio per i barattoli delle conserve. Un dato, per dimostrare l’importanza di questo mercato: l’Italia, caratterizzata da una forte presenza dell’industria alimentare, importa il 90 per cento della banda stagnata che utilizza, mentre l’Ilva di Genova è appena arrivata a 80 mila tonnellate l’anno.
Sotto i nuovi commissari, poi, gli investimenti avviati da Bondi per riportare Genova ai suoi livelli di produzione potenziali sono stati fermati, bloccando ad esempio il ritorno in funzione di una seconda linea per i prodotti zincati, destinati al mercato dell’auto e della meccanica. Anche perché, quando Guerra ha lasciato il suo ruolo di consulente di Renzi, il piano che aveva messo in piedi è stato smantellato in tutta fretta. Non si è più parlato di rilancio ma di vendita al più presto. E i manager arrivati da fuori, prima Rosini e poi Munari, hanno lasciato.
Così come James Bond in “Casino Royale”, anche il governo Renzi ha però una chance per evitare la sconfitta e la catastrofe di una chiusura dell’Ilva. I commissari hanno preparato sei possibili scenari su cui i compratori dovranno formulare le loro offerte.
Il più negativo, per chi ha a cuore la sopravvivenza di un gruppo integrato sull’intero ciclo siderurgico, è quello di uno spezzatino, destinando a diversi acquirenti le varie società operative e, forse, gli stabilimenti. Gli scenari più attraenti, sempre secondo lo stesso punto di vista, sono invece i due formulati con l’obiettivo di riportare al massimo i livelli di produzione di Taranto, raddoppiando i 4,9 milioni di tonnellate del 2015, con la possibilità di salvare per intero la forza lavoro. Uno prevede che vengano riattivati tutti gli altoforni esistenti, compreso il numero 5, oggi fermo, che da solo garantisce il 40 per cento della capacità produttiva dell’impianto pugliese. L’altro prevede invece la sostituzione dell’altoforno numero 5 con dei forni elettrici, meno inquinanti, da caricare non con il minerale grezzo ma con il cosiddetto “pre-ridotto”. La pre-riduzione consiste nell’esposizione del minerale all’azione di monossido di carbonio e di idrogeno, in modo da ottenere un prodotto con una più elevata concentrazione di ferro metallico, che può essere caricato appunto nei forni elettrici, funzionanti non a carbone ma a gas. Con un impatto ambientale, di conseguenza, ridotto.
A formulare questo piano ha collaborato un professore del Politecnico di Milano, Carlo Mapelli, che “l’Espresso” aveva intervistato due anni fa. E che, interpellato oggi, si dice convinto che Taranto possa avere un grande futuro industriale: «Costruendo un impianto per la preriduzione, il minerale potrebbe essere caricato già caldo nei forni elettrici, con un minore impatto ambientale. E questo si unirebbe ad altri vantaggi che lo stabilimento garantisce: grazie al pescaggio del porto, può ricevere il minerale di ferro con navi di grandi dimensioni, massimizzando la produttività. Per questo motivo Taranto è incomparabilmente più competitivo di tutti gli altri impianti presenti in Europa: se c’è un posto dove produrre acciaio low cost, a basso impatto ambientale e di qualità più elevata rispetto alle importazioni cinesi, è proprio qui», spiega.
La carta per rendere praticabili piani così ambiziosi il governo la può solo giocare attraverso la Cassa Depositi e Prestiti, la società che investe il risparmio postale degli italiani. La Cdp ha presentato una manifestazione d’interesse per una quota di minoranza, a cui aggregare altri operatori.
Nella lista dei candidati, qualche nome di peso c’è: il colosso brasiliano Csn Steel, che potrebbe essere interessato a mettere un piede in Europa, il fondo americano Erp Compliant Fuels, che ha nello statuto gli investimenti tesi a diminuire le emissioni inquinanti, il gruppo turco Erdemir.
E altri, pure italiani, potrebbero unirsi, anche in seguito. Perché questa non sia una cordata in stile Alitalia, però, i vincoli sono stretti. Servirà probabilmente che la Cdp faccia sentire tutta la sua influenza. E che il management goda di grande indipendenza rispetto agli interessi di tutti i soci.
Si è fatto avanti Paolo Scaroni, ex Enel quando Gnudi era presidente, poi all’Eni, oggi banchiere d’affari incaricato dai commissari di fare da consulente nella vendita. Un nome che forse, a Taranto, non verrebbe accolto benissimo, vista la condanna che nel 2014 ha subito per disastro ambientale, legata all’inquinamento della centrale Enel di Porto Tolle.