I minorenni che si prostituiscono. La vita nei tunnel sottoterra. E l’incontro tra le adolescenti della periferia e il mondo degli immigrati. Parla una diciannovenne romana, che aspetta un figlio da un egiziano
Ambra vive nella periferia di Roma, in un quartiere che è nato con lei e dove le case già crollano a pezzi. Un’appendice della Capitale venuta su negli ultimi vent’anni, dove l’unico verde è quello realizzato dal centro commerciale. Spesso attraversa la città, prendendo più autobus per arrivare alla stazione Termini, nel centro di Roma, e stare con gli amici, anche se negli ultimi mesi non ci va più. «A Mahmoud non piace che stia lì e nemmeno a me, non è un gran bell’ambiente. E poi se arriva la polizia e controlla i documenti diventa sempre un macello», spiega la ragazza.
Ambra ha scarpe da ginnastica colorate, le unghie con i brillantini, i capelli lunghi castani. Da poco ha compiuto vent’anni. Se ne sta seduta su un muretto in un parco di cemento e sbatte i piedi l’uno contro l’altro, come una bambina. Di tanto in tanto si tocca la pancia: tra meno di due mesi sarà mamma di Haifa, la figlia che aspetta dall’egiziano Mahmoud, 24 anni.
Ambra è italiana, e come lei Francesca, 19 anni, fidanzata con un amico di Mahmoud e incinta da pochi mesi. Ragazze che frequentano coetanei stranieri che girano per la stazione Termini e conoscono i bambini “invisibili”, quelli arrivati da fuori, dispersi nelle strade attorno al grande edificio dove passano i treni di tutta Italia. Ragazzi come Mahmoud, venuto in Italia quando aveva quindici anni. Da solo.
[[ge:rep-locali:espresso:285182008]]«Non ha trovato tante difficoltà», racconta Ambra, «soprattutto in Sicilia, perché in Sicilia capiscono l’arabo, bene o male sono abituati. Quando è arrivato a Roma i periodi che non stava in casa famiglia dormiva per strada, ma se sei minorenne hai sempre una casa famiglia dove tornare e sei in regola con i documenti. Il problema è quando hai diciotto anni: senza lavoro niente documenti e allora pagano i loro compaesani per fare un contratto di lavoro finto».
Per ora vivono con la mamma di Ambra, che ha un lavoro e uno stipendio garantito. Nella stanza di lei con le pareti colorate di rosa, sono stretti in un letto singolo, tra libri e dvd di Harry Potter. «Alla fine l’ha accolto, mio padre invece vive da un’altra parte da anni. Gliel’ho detto solo poche settimane fa che sono incinta e ancora non mi parla», spiega. «Ha chiamato mia madre dopo anni che non si parlano, se non tramite avvocati, le ha chiesto se fosse vero, poi ha detto: va bene». Si zittisce, si ritocca la pancia, prosegue: «Con me lui non si è arrabbiato, l’ha presa indifferentemente. Non mi ha parlato più».
Ambra sale sul primo autobus verso il centro, tra buche e attese nel traffico ricorda quando si sono conosciuti. Lei all’inizio è stata un po’ sulle sue, ma Mahmoud ha insistito, «e poi gli egiziani hanno una cultura differente: sono più presenti, sono protettivi non ti fanno avvicinare a una persona del loro stesso sesso. Però anche io sono gelosa», ammette.
Gelosa delle altre. Adolescenti anche di tredici, quattordici anni che quasi tutte le sere girano tra il fast food e il giardino davanti alla stazione Termini. Fino a notte fonda insieme ai ragazzini egiziani che dormono per strada, nei cunicoli sottoterra, costretti a prostituirsi per mangiare. «Sono spuntate come funghi, passano, le fermano e basta un ciao che loro danno corda. Alcune stanno lì perché sono fidanzate, altre aspettano qualcuno che se le pigli».
La futura mamma è gelosa, ma ora sta per nascere Haifa e ha altro cui pensare. Se non fosse rimasta incinta il suo sogno sarebbe stato di «lavorare a Dubai per qualche compagnia aerea, perché ti pagano di più, ti tutelano e hanno divise bellissime, fatte dagli stilisti dell’alta moda». Il sogno adesso è quello di stare con Mahmoud in una casa da soli. Staranno insieme a differenza di una sua amica «che ha una figlia con un egiziano, ma quando lei era a fine gravidanza il suo ragazzo è stato arrestato, l’hanno portato al Cie di Ponte Galeria e mandato in Egitto. Non potrà mai tornare e tutto questo perché non è riuscito a fare in tempo a riconoscere la bambina».
Ambra in Egitto non c’è mai stata, per vedere com’è ha aperto Google Earth. «Sono andata a cercare il paese suo, nella zona di Gharbia», racconta, «non si vedono come a Roma i palazzi, i negozi. Ci sono poche case, e niente strade, quando piove si fa tutto fango».
Ha visto però i genitori di Mahmoud: «Facciamo le video-chiamate, lui mi dice di parlare, ma io non capisco nulla. Li guardo e basta, anche se ho imparato qualche parola d’arabo». In realtà Ambra vorrebbe imparare l’arabo, ma quello «standard dei Paesi ricchi del Golfo, perché loro, a Gharbia, parlano un arabo che sta all’italiano come il ciociaro».
Al di là del problema linguistico, l’unica questione culturale da cui scaturiscono litigi con Mahmoud è perché lei mangia carne di maiale. Un’ora e tre autobus dopo sale a bordo del 90 anche la sua amica Francesca. Attraversano ambasciate e ministeri, superano la breccia di Porta Pia, arrivano finalmente alla stazione Termini. Ambra saluta alcuni ragazzini raggomitolati sotto un albero circondato dall’immondizia, si volta e dice: «Mi dispiace per loro, ma tanti sono minorenni e potrebbero stare in casa famiglia invece che per strada, il fatto è che vogliono mandare i soldi ai loro familiari. Sono venuti qui per questo».
Il primo viaggio che ha fatto insieme a Mahmoud è stato in Sicilia. Sono andati a prendere il fratello piccolo arrivato con un barcone dall’Egitto. «Ci ha chiamato quando è arrivato», racconta, «abbiamo preso il treno e siamo andati da lui, era in una struttura. Dicono che li controllano, per la criminalità, per evitare che il mafioso li chiami per fare dei servizi, in realtà possono andarsene senza nemmeno scavalcare. E così abbiamo ripreso il treno ed è venuto con noi a Roma».
A Roma, dove Abdul, Fathi e Ibrahim e altri ragazzini sono costretti a rubare e prostituirsi per mangiare. Ambra e Francesca si incamminano verso il fast food, alle loro spalle ci sono Ibrahim e altri due ragazzi. Ibrahim è felice, dice che l’aspetta una ragazza.
All’interno ce ne sono tre, sono sedute a un tavolo, e sorridono. C’è Tatiana stretta nei suoi leggings grigi con la maglia a righe, una piccoletta robusta con i capelli neri «che nessuno vuole perché è cicciona», e una biondina con le zeppe e il rossetto rosso fuoco.
«Ce ne sono alcune che sono piccole. Una ha 14 anni e la mamma l’accompagna e la viene a riprendere anche alle 4 del mattino», racconta Francesca. «Un giorno ho chiesto alla madre perché fa così e lei mi ha detto che non sa cosa fare. Ma ti pare che una madre possa rispondere in questo modo?». Secondo Francesca queste ragazzine sono attratte dalla libertà: «Pensano di poter vivere come gli egiziani, di fare quello che gli pare, ma se questi ragazzi avessero i genitori non li farebbero stare qui».
Ibrahim aspetta, ma la sua nuova amica ancora non arriva. «La prima volta che ho baciato una ragazza mi tremavano le mani», racconta. Non tanto per l’emozione del primo bacio quanto per il fatto che «in Egitto non ci si bacia per strada». E così è stata lei, proprio sotto alla statua di Giovanni Paolo II di fronte alla stazione di Pier Luigi Nervi, quella che dovrebbe essere simbolo di protezione e accoglienza, a stringergli la mano, lui s’è scansato e poi ha avvicinato le labbra. «È stato bello», ricorda, ma anche oggi se bacia qualcuna non vuole che gli altri lo vedano.
Amir non la pensa allo stesso modo. L’altra sera s’è fatto scrivere sulla mano il numero di telefono di una moretta emaciata. «Ha 17 anni, è di Roma, sai, e sta arrivando», assicura. E appena Katia arriva lui la bacia. Gli altri si stringono attorno e ridono, mentre i due si incamminano verso i giardini dove c’è il buco. «La porta nell’hotel cinque stelle», ridacchia il ragazzo del Bangladesh che se ne sta fermo all’angolo stringendo a sé accendini e lampadine. Nei giardini non c’è posto, le coperte sono già tutte occupate e Amir entra con Katia nell’androne di un palazzo, lo stesso dove qualche suo amico si vende a un uomo per campare.
Al fast food Fathi, 19 anni, da due anni in Italia, è uscito di galera da poco, l’avevano trovato a spacciare. Filosofeggia come un uomo vissuto, ha una sua teoria: «Le donne italiane vengono con noi arabi perché siamo più calienti. Una mia fidanzata l’ho conosciuta in discoteca, le ho detto che era bella e siamo andati a fare l’amore in una casa abbandonata, a sette fermate di autobus da qui. Non è lontano», assicura. «Non avrei mai pensato», prosegue, «c’erano solo un tavolo di legno e un materasso, e pure un buio che uno ha paura, ma lei c’è stata lo stesso e quando la mamma ha chiamato la mattina per chiedere dov’era le ha detto a casa di un’amica, perché non si dice che si esce con un egiziano».
Fathi si tocca in continuazione un braccialetto di filo blu e bianco intrecciato con il nome “Sara”. Sara c’è stata, ma se ne è andata. Perché la seconda teoria di Fathi è che «le donne guardano ai soldi», e finché lui spacciava stava bene. Sara è tornata un giorno, ha chiesto di lui, le hanno detto di andare a Regina Coeli e allora è sparita.
«Che vuoi fare, qua dentro è come “Beautiful”. Sono fidanzamenti che durano una settimana, poi stanno con un altro», spiega Ambra. «Stanno un po’ con quello, poi un altro ci prova e stanno con lui. Una che viene qui sta sempre con gli egiziani, anche i tunisini, basta che siano arabi. Si era messa con uno, è stata pochi giorni e poi lui l’ha lasciata e lei ha detto che era incinta. Scriveva su Facebook “la gravidanza è la cosa più bella”, “non vedo l’ora che nasca”. Poi si è stufata e mi ha detto: vado ad abortire. Alla fine sì è fatta un altro profilo e si è messa con un altro egiziano».
Per Ambra c’è una spiegazione: «Inventano che sono incinte perché sono state lasciate, poi, guarda caso, questi bambini li perdono sempre, saranno iellate. Sanno che gli egiziani sono molto legati alla famiglia e allora pensano che così tornano da loro».
Anche lei pensa al matrimonio, che «una cosa dell’Egitto che mi piace sono i matrimoni. Durano giorni, peggio di Napoli». Loro però si sposeranno a Roma «perché se lui vuole tornare in Egitto deve essere per forza sposato, altrimenti deve fare il militare. Il servizio è in base agli anni di studio, Mahmoud non ha neanche la terza media e dovrebbe fare tre anni, ma se si sposa non lo fa». In fondo alla strada, nelle case occupate, c’è chi in Egitto è andato proprio per sposarsi. Anche più volte. Ci sono trentenni italiane che per sette, diecimila euro hanno deciso di volare al Cairo a incontrare sconosciuti migranti. Mogli a tempo per matrimoni simulati con l’obiettivo di far ottenere la carta di soggiorno per motivi familiari.
La biondina con il rossetto rosso, 16 anni e non ha nessuna voglia di parlare. Ma nel frattempo ha chiesto una sigaretta a un passante, sorride, e al primo che le dice «sei bella» eccola che è già nelle braccia di Fathi. Ambra la guarda e già parla da mamma: «Mi chiedo perché i genitori le facciano stare in giro di notte in posti come questi a quell’età, alcune sono qui a 13 anni, alla stazione Termini. A mia figlia impedirò di stare qui. Perché qui non gira bella gente di giorno, figurarsi di notte».