Alla stazione Termini si aggirano pedofili a caccia di minorenni. Piccoli immigrati senza famiglia, costretti a vivere nei cunicoli sottoterra e a prostituirsi per mangiare. Reportage dalle viscere della capitale (Foto di Cristina Mastrandrea)

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Scheletri di ombrelli, un gabbiano, kleenex usati e una grata arrugginita che si apre e si chiude. Un tappeto di melma, l’odore stordisce. Fathi si sposta il ciuffo di capelli, abbassa la testa e scende giù nel buco. «Meglio dormire fuori». Abdul risale la scaletta e si stringe nella felpa per il freddo. «Io sto qui, sotto l’albero». La sua vita è in un metro quadrato fatto di un cartone, una coperta marrone e due sacchetti di plastica blu. «Fuori è meglio, perché tira vento e non c’è quella puzza», dice. Ma quella puzza, anche se tira vento, rimane impressa nelle narici. E non se ne vuole andare. Fathi ha 14 anni, vive qui da due anni ed è arrivato da solo da Gharbia, in Egitto. Abdul ne ha 16. Come lui Ibrahim e gli altri. Venti, trenta ragazzini che dormono per terra, rubano, si prostituiscono. Invisibili. In un giardino con pochi fili d’erba rinsecchiti, tra taxi che aspettano e pullman che scaricano turisti, dietro a chioschi di libri usati e reliquie del Ventennio. Nel cuore della Capitale. Attorno al più importante snodo ferroviario nazionale. Il grande ventre di Roma e dell’Italia: la stazione Termini. E per assonanza viene in mente Christiane F., il suo libro di fine Anni 70, “Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino”, dove “Zoo” è il nome della stazione ferroviaria, luogo di disperazione e di prostituzione per minorenni a caccia di soldi per comprare l’eroina.

IL RACCONTO DEL SEDICENNE EGIZIANO ABDUL
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Da piazza della Repubblica alla stazione, meno di quattrocento metri tra fasti dell’antica città imperiale, gli hotel di lusso e le bancarelle degli ambulanti, percorsi in fretta ogni giorno da pendolari e turisti, quasi mezzo milione al giorno, 150 milioni all’anno. Fuori dai passaggi, dopo i binari resi ancora più soffocanti per le misure di sicurezza adottate nei giorni delle stragi di Parigi: sbarramenti, cordoni,vetri di protezione. Dopo l’immenso androne che a respirarlo sa di fumo, acciaio, umanità affrettata. Sotto ai portici, una signora esce da una gastronomia d’eccellenza, e tiene in mano una bottiglia di aceto balsamico da cinquanta euro. Con la stessa cifra un uomo compra il corpo di Fathi.

«I vecchi vengono e se vuoi stare con loro ti danno cinquanta euro. Se ci stai tanto tempo anche duecento. C’è un italiano che gira sempre con un giubbotto mimetico, poi un altro che però dà pochi soldi e fa tutto veloce là dentro». Abdul indica il portone di un palazzo dell’Esquilino, il quartiere multietnico alle spalle di Termini. Il cancello è sempre aperto, all’interno decine di piccoli alberghi economici e una parrucchiera specializzata in acconciature per trans. A terra in un angolo del cortile di cemento un cappellino rosso e un preservativo usato. I vecchi sanno dove cercare questi ragazzini in attesa di un cenno, di un sorriso equivoco, di un modo per campare. Alla fermata del tram appoggiati alla balaustra, in piedi fuori da un fast food di fronte alla stazione, in quel giardino che fu dei ragazzi di vita di Pier Paolo Pasolini e che oggi è la casa dei piccoli egiziani. Non più borgatari ma migranti. Spariti nel nulla. Invisibili. Anzi no, vivono accanto alla Grande Stazione.

SEIMILA SCOMPARSI

Secondo Europol diecimila minorenni non accompagnati arrivati in Europa nel 2015 sono scomparsi. Quasi seimila solo in Italia. Spesso si tratta di egiziani, eritrei, somali, siriani in cerca di un futuro diverso dalla guerra e che vogliono solo raggiungere i parenti in Nord Europa, ma molti altri finiscono a vivere per strada e nelle mani della criminalità. «Ne arrivano in continuazione», spiega Antonio Pignataro, dirigente del commissariato Viminale, «si presentano sapendo già cosa chiedere. Sono indirizzati da qualcuno». Solo nel 2014, in questo commissariato, sono stati registrati oltre 550 minori stranieri non accompagnati, cinquecento nel 2015, più della metà sono egiziani.

«Molti dichiarano di essere minorenni anche se non lo sono, perché temono di essere respinti. Se è accertata la minore età, vengono accompagnati nelle case famiglie, ma poi li ritroviamo a dormire in strada o li arrestiamo per furti e rapine. Alcuni la sera rientrano persino in casa famiglia, ma di giorno nessuno li controlla e pur di mandare qualche soldo a casa accettano anche di vendere il proprio corpo», aggiunge il dirigente della polizia di Stato Pignataro.
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«Viene a cercarci anche uno che è ricco, ha una casa, è inglese», racconta Abdul. «Ti fai la doccia calda e ti fa vedere le foto e i video di altri bambini che fanno l’amore. Poi ti dà cinquanta o cento euro». L’inglese è un signore di mezz’età, robusto, capelli brizzolati, giubbotto di pelle, tra le mani una bottiglietta d’acqua. Fa avanti e indietro da via Principe Amedeo al fast food. Un girone infernale di pochi metri che percorre in continuazione dalle tre del pomeriggio fino a notte fonda. Si ferma, rimane fisso in piedi, guarda e scruta la zona. Poi sceglie. Si avvicina a un ragazzino che calza un paio di scarpe rotte. Pochi cenni d’intesa, una mezza parola e i due si capiscono. Lui va avanti, e il ragazzino lo segue. Svoltano l’angolo, si infilano nell’androne di un palazzo e salgono al quinto piano. Mezz’ora dopo scende il ragazzo con le scarpe rotte e l’uomo dopo di lui. Fa freddo e s’è infilato un cappello di lana blu elettrico. Instancabile e insaziabile gira in continuazione. Continua a dare un’occhiata alla sala giochi, poi ad un gruppetto di ragazzi seduti per strada. Un cinese se ne sta sulla soglia di un negozio di accessori elettronici. Rientra subito, anche se non c’è nessun cliente. Due minuti appena e l’inglese ripassa davanti ai ragazzini,e lancia lo sguardo a uno di loro.
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E il giro riprende. L’inglese si sentiva libero di agire. Finché, dieci giorni fa, lo hanno seguito gli agenti del commissariato Viminale, coordinati dal procuratore aggiunto Maria Monteleone. Hanno bussato alla porta di notte, lui ha provato a difendersi: «I don’t speak Italian. Sono americano, sono in vacanza. Tra pochi giorni vado a Milano e poi ritorno nel mio Paese». I poliziotti entrano e lo arrestano e mentre gli agenti lo bloccano lui urla: «Qual è il problema? Era d’accordo. Ha diciott’anni». Quello che era con lui è un ragazzino emaciato, la felpa di due taglie più grandi, il cappellino da baseball calato sul volto, era appena uscito dall’appartamento. Ed ha tredici anni. È finita così la vacanza dell’ingegnere della multinazionale Boeing in pensione, arrivato circa un mese fa da Chicago. Tre, quattro incontri al giorno, secondo gli inquirenti. Egiziani, per lo più, ma anche maghrebini e nomadi. Non era la sua prima volta a Roma. Ad ottobre aveva alloggiato sempre nella stessa zona. Il suo passaporto racconta di innumerevoli viaggi, dall’Est Europa al Sud America. Bucarest, Rio de Janeiro. E Roma.

«Non si può andare avanti così», si sfoga un poliziotto. «Prima andavano nei bagni della stazione e ora che è presidiata per il Giubileo e per il pericolo degli attentati si sono spostati nelle strade vicine. Lo scorso maggio i colleghi della ferroviaria hanno scoperto che alcuni adolescenti, soprattutto nomadi, si vendevano ad adulti di tutte le età, compreso un parroco». Don Dino la domenica diceva Messa e il resto della settimana lo passava a scrivere romanzi pedopornografici tra santini, sacre scritture e immagini di ragazzini meticolosamente schedati per tipo di prestazione.

Soffia un vento gelido. Dalla grata del buco filtra la luce che illumina le Terme di Diocleziano. Basta attraversare la strada per entrare nell’ultimo progetto architettonico di Michelangelo, la Basilica di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri. Quella in cui si svolgono le cerimonie ufficiali, i funerali di Stato per i militari caduti nelle missioni all’estero. Costruita in onore alla memoria delle centinaia di vittime delle persecuzioni, obbligate a lavorare in condizioni disumane per la costruzione del complesso termale.

«Gli amici mi dicevano che Roma era bella, ma non ho mai visto una persona buona qua». Qua, nel centro di Roma, Abdul è arrivato come tutti gli altri dopo aver attraversato da solo il mare su una carretta e aver risalito dalla Sicilia l’Italia tenendosi stretto il fogliettino con i numeri da chiamare. Ci tiene a sottolineare che lui non è venuto a Roma per rubare. «Quando sono partito mi ha chiamato un muratore e mi ha detto: “Vieni in Italia per lavorare”. Mia mamma ha pagato cinquemila euro per farmi salire sulla barca ad Alessandria». Quindici giorni di viaggio. A dodici anni, da solo. «Ho avuto paura del mare e di morire», ammette, «ma ho più paura qui». Ora quei soldi li deve restituire. È questo il grande problema di Abdul. «Non riesco a mandare nulla a casa a lei e ai miei fratelli piccoli. Sono contadini e sono poveri. Ho provato ad andare anche ai mercati della frutta (al Centro agroalimentare, ndr). Ti danno due o tre euro, scarichi le cassette e aiuti gli altri senza che ti vedano, ma dicono che sono piccolo e non riesco a portarne tante e così non mi vogliono». La madre non la sente da mesi. L’ultima volta le ha detto di stare in una casa famiglia. «Non deve sapere che sono per strada, se lo sa piange per me. Piange perché ha paura che io muoia qui».


PRENDO I SOLDI E SCAPPO

Abdul dice di non essersi mai prostituito. «Io prendo i soldi e scappo. E se il vecchio mi dice che mi mena io gli dico che chiamo il poliziotto. Il vecchio non mi fa paura». «Perché faccio così?», si chiede. «Perché ho fame, troppa fame. Se non faccio così, che faccio? Muoio?».

Si ferma davanti al chiosco ambulante davanti a Termini, è pieno di frutta. Mele, arance, mandarini. «A lui chiedo sempre se mi regala una mela ma dice che se me la dà il suo padrone lo picchia». Il ragazzo del Bangladesh, aperto 24 ore su 24, annuisce e lo manda via. «A lui non rubo», sentenzia Abdul. «Ho derubato delle persone, uno mi ha chiesto della cocaina. Voleva duecento euro. Ho detto ok. Ho preso due medicine e le ho fatte sembrare cocaina, ma è andato dalla polizia e ha detto che gli ho rubato i soldi. Ho solo venduto cocaina. Falsa cocaina».

Per quel furto e per altri Abdul ha già trascorso alcuni mesi nel carcere minorile di Casal del Marmo. «Meglio il carcere della casa famiglia. In carcere hai solo due problemi: non hai il telefonino, ma tanto io non ce l’ho, e non puoi andare dove ti pare. Per il resto mangi, hai un letto, giochi a calcio e ti insegnano anche l’italiano». Dalla casa famiglia, dove viene regolarmente portato a scontare la pena alternativa dopo il periodo di carcere, Abdul, regolarmente, scappa. Case famiglia e di accoglienza che troppo spesso trattano i bambini come delle cambiali da riscuotere. «Non ci voglio stare, non mi danno da mangiare, mi picchiano». Alza il cappellino e mostra il sopracciglio tagliato. Ogni volta che lo riaccompagnano, sempre nella stessa struttura, aspetta il momento buono, un giorno, al massimo due, e ritorna qui. «Ma dove vuoi che vada? Io non so dove andare. Non ho un padre, non una madre, non un fratello, non uno zio. Non ho parenti da raggiungere in Europa. Non c’ho nessuno, c’ho solo la fame». Alla fine la polizia lo riacciuffa e il giro inizia di nuovo: un mese di carcere, di nuovo in casa famiglia e di nuovo in strada.

Alla pizza al taglio, proprio sotto al commissariato, Yassine, tunisino arrivato negli anni Ottanta, scappato dall’Italia verso la Francia per poi ritornare a Tunisi e quindi di nuovo a Roma, scuote la testa: «Stanno peggio di quando siamo arrivati noi. Non sono rifugiati, li chiamano migranti economici. Vengono per mangiare, ma qui si mangiano solo loro».

«Non possiamo chiamarci un Paese civile se accettiamo che sul nostro territorio ci siano bambini evaporati come Abdul», nota il direttore generale Unicef Italia Paolo Rozera. Del resto «la Convenzione per i diritti dell’infanzia deve essere applicata anche in Italia», spiega Giacomo Guerrera, presidente Unicef Italia «e nei nostri compiti c’è quello di sollecitare le autorità italiane a promuovere i diritti dei bambini». Una proposta di legge, presentata dalla deputata Pd Sandra Zampa, prevede l’istituzione di un albo dei tutori, una cabina di regia in grado di regolare in modo organico, su tutto il territorio nazionale, la protezione e l’ospitalità dei piccoli migranti, facendo sì che ad occuparsi di loro non siano solo figure burocratiche. Ma da mesi è ferma in Parlamento, chiusa in un cassetto. .
Abdul dà un’occhiata veloce al militare che imbraccia un mitra davanti all’ingresso della stazione, poi si sposta più in là e dice: «Guarda loro». Quelli da guardare con ammirazione sono D’Artagnan e gli altri piccoli rom. Hanno dodici, tredici anni, sfilano portafogli, telefonini, macchine fotografiche a turisti e passanti. Ottocento, mille euro di bottino al giorno per ciascuno. «Sono veloci, eh! E più ricchi di te», chiarisce.


SONO UN BAMBINO, HO PAURA

L’altro giorno è scoppiata una lite furibonda. Urla, spinte, calci. Ibrahim ha preso un pezzo di vetro e lo ha avvicinato al collo di Fathi, «Io ti sgozzo, faccio anche io come Daesh. Io sono uno di Daesh». Ibrahim, diciassette anni e occhi neri infuocati di rosso che sembrano aver già visto tutto. Da un anno vive sotto l’albero accanto a Abdul. Arrotolato sotto alla coperta, un fagotto buttato tra i sacchetti della spazzatura, con i ratti che provano a infilarsi nei suoi pantaloni. Ibrahim si muove a scatti e minaccia chiunque gli si avvicini, tranne quando entra in catalessi, quando prende la pasticca. Pasticche di droga che costano spiccioli: cinquanta centesimi, un euro e puoi calarti quel che vuoi. Basta rivolgersi a un arabo riccioluto che se ne sta appoggiato proprio di fronte alla farmacia all’ingresso di Termini. Le compra con tanto di ricetta medica, falsa o rubata. Scambi rapidi da una mano all’altra, ma nelle strade laterali, perché lungo il perimetro esterno dello scalo ferroviario ci sono le telecamere. Le pasticche più vendute sono quelle di Tramadol, un oppiaceo antidolorifico e antidepressivo. Confonde i sensi, placa la fame, il dolore e dà l’impressione di essere invincibili, anche quando sono richieste prestazioni sessuali poco gradite. E poi Roipnol, Rivotril, Akineton, psicofarmaci da prendere con un po’ di alcool per fare qualche scippo. «Ti fanno stare bere, ti fanno sognare. È bello sai, ma non dura tanto, devi riprendere subito qualcosa», racconta Fathi.

Dentro al fast food Fathi prende per mano una ragazzina con le extension biondo platino e le unghie colorate di blu. Abdul fa le presentazioni: «Lei è Angela la sua ragazza, è italiana, sai. Questa invece è Tatiana. La fidanzata di Bahir che è più grande di noi, ha diciannove anni. Quella laggiù, invece vorrebbe stare con me, ma non mi piace, è cicciona». Angela, Tatiana e la sua amica prendono tre autobus per arrivare dalla periferia e quasi tutte le sere restano qui fino a tardi. Fathi si siede accanto a Angela e mentre dividono un chicken burger si dichiara: «Noi quando abbiamo diciott’anni andiamo a vivere insieme e facciamo un figlio, così io divento italiano». Angela non ha mai conosciuto suo padre, sua madre dice che non sa bene che lavoro faccia, ma ha già imparato a cantare una canzone in arabo e anche a dire qualche parolaccia. Abdul questa sera non vuole tornare a casa. Ha paura che Ibrahim lo picchi. «Resto tutta la notte qui. Con un euro prendo un cappuccino e finché ce l’ho non mi possono cacciare». Dopo un paio d’ore china la testa sul tavolo, il buttafuori senegalese nel suo completo nero lo guarda e continua a lavorare.

Nel giardino lungo il vialetto c’è solo un uomo che si fa strada tra le buche con la sua sedia a rotelle. È il “farmacista”, lo chiamano così perché s’è venduto tre farmacie per farsi d’eroina. Poi un giorno s’è sparato la dose su una gamba ed è rimasto paralizzato.

Un giorno, con le luci dell’alba, è arrivata l’Ama, la municipalizzata che si occupa della pulizia delle strade. I ragazzini se ne stavano qualche metro più in là, tenendo stretti i loro stracci. Ognuno i suoi. Il giorno dopo hanno tentano di riaprire la grata e dopo una settimana l’amministrazione comunale l’ha richiusa, con tanto di cartoni e cemento. Una toppa qua e una rinfrescatina là. Come se Abdul, Fathi e Ibrahim non esistessero. Ora sono tutti stretti sotto all’albero. Ibrahim sbotta: «Ma qui siamo già troppi». La vita quotidiana accanto alla stazione Termini, centro di Roma, cuore d’Italia.

Abdul si zittisce, gli occhi sembrano lucidi, ma è troppo buio per vederli. Accende una sigaretta, grida: «Sono un bambino, ho paura».