Brexit: cosa ha già ottenuto Londra, cosa rischia domani
Un decennio di incertezza economica e finanzaria: ecco cosa dovrebbe affrontare la Gran Bretagna se nel prossimo referendum del 23 giugno i sudditi di Sua Maestà decidessero di uscire dalla Ue. Ecco perché
Il primo ministro di Gibilterra, territorio d'oltremare della Gran Bretagna, ha deciso: farà campagna affinché i 23 mila abitanti della rocca votino contro la Brexit, e per restare in Europa. È l'unica certezza in un difficilissimo esercizio di previsione su come andranno le cose al referendum del 23 giugno voluto dal governo di Downing Street. Le due posizioni sono date testa a testa, con la vittoria affidata agli indecisi, dicono i sondaggi. Situazione ideale per chi, come gli inglesi, va matto per le scommesse.
Per far imboccare al dibattito sull'addio della Gran Bretagna all'Unione europea la strada della logica e della pragmatica, e non solo della campagna politica, si è già speso l'establishment imprenditoriale, dicendo con una lettera di “executives” del Ftse 100 (il listino dei big tra cui Shell, Bae system, Easyjet) che per la salute del business è troppo rischioso andarsene.
I mercati intanto hanno già dato un prezzo alla Brexit: l'indebolimento della sterlina. Non motivata dalla oggettiva situazione dell'economia britannica, ma da attribuirsi tutta all'incertezza dell'esito del referendum. Il cambio euro/pound oggi è a 0,78, e Ubs prevede che in caso di vittoria del sì il rapporto tra le due valute possa dirigersi vero la parità, una sterlina uguale a un euro, mentre in caso di vittoria del no dovrebbe riconquistare quota 0,73 ma solo verso la fine dell'anno. Questo vuol dire che oggi i mercati attribuiscono una probabilità del 25 per cento alla Brexit.
Come mai? Forse perché i rischi oggettivi che la Gran Bretagna deve affrontare uscendo dal contesto europeo superano quelli dei vantaggi sbandierati. Lo ha detto a chiare lettere un'analisi che proviene dal governo e ha il crisma dell'ufficialità. Uscire condannerebbe il Paese a un decennio di incertezza, il decennio che sarà necessario a ricostruire su base individuale la complessa rete di relazioni, patti internazionali, accordi, regole e vincoli che oggi sono garantiti dal lavoro fatto sotto l'ombrello europeo.
Quale esempio. Si tratta di ricostruire su base nazionale 5896 regolamenti europei e 6399 regole tecniche; riscrivere e adattare alla Gran Bretagna 978 direttive europee; ricontrattare come GB tutte le intese di sorvolo e atterraggio per le compagnie aeree in giro per il mondo; riesaminare la posizione di 3 milioni di lavoratori con passaporto di altri paesi europei e assicurare quella di 1,8 milioni di britannici che lavorano in Europa, definendo anche i loro diritti futuri in termini di previdenza; fare i conti con l'Europa del dare e dell'avere, individuando la quota di debito che compete alla GB nelle varie istituzioni europee. Rinegoziare accordi commerciali con più di 50 paesi. E non è un elenco esaustivo.
A mettere in chiaro la totale mancanza di convenienza della Gran Bretagna all'addio è anche un lavoro del Ceps (Centre for european policy studies, un think tank di Bruxelles) firmato da Michael Emerson. Il messaggio è netto: con le condizioni appena ottenute da Cameron la Gran Bretagna resta dentro per quello che le sta a cuore (il mercato unico, il suo peso politico e il ruolo in politica estera), e fuori per quello che non le piace dell'Europa (l'euro, la libera circolazione sotto Schengen). Una soluzione ideale.
Sui quattro punti della trattativa intavolata da Cameron, infatti, Bruxelles ha dato ampie assicurazioni. Si trattava di proteggere la City da future regole sui mercati finanziari che avrebbero potuto pregiudicarne l'autonomia di business: concesse. La richiesta di aumentare la competitività del mercato sia interno che esterno ha incassato la promessa del Consiglio europeo di diminuire il peso delle burocrazie, disboscare la legislazione dagli eccessi (con un meccanismo di verifica annuale), e incoraggiare maggiore aggressività commerciale negli Usa, in Sudamerica, in Giappone e Asia.
Sulla questione della sovranità, e cioè sulla contrarietà degli inglesi a essere coinvolti in una maggiore integrazione politica, anche questo è stato detto sì. Come pure sul quarto punto, quello della libertà di Londra di prendere provvedimenti per limitare il turismo del welfare all'interno dell'Unione. Bruxelles ha anche accettato un nuovo meccanismo di allarme e salvaguardia a cui si può fare ricorso in presenza di un flusso straordinario e prolungato di lavoratori da altri paesi europei: in questo caso il Consiglio Europeo può dare il via libera a una restrizione dei benefici personali al massimo per quattro anni. Per chi invece vuole solo risiedere nel Regno Unito senza cercare lavoro, il permesso verrà dato in funzione dell'esistenza di mezzi per mantenersi.
Ma queste conquiste non sembrano abbastanza. E così i sostenitori della Brexit si preparano ad appellarsi all'articolo 50 del trattato di Lisbona per una secessione. Come potrebbe accadere, si chiede il documento del Ceps, e con quali conseguenze?
La Brexit potrebbe essere immaginata come un “big bang”, o almeno così la vorrebbero i suoi sostenitori. Il giorno dopo il sì al referendum la Gran Bretagna notifica che tutti i trattati cessano di applicarsi, e tutta quella costruzione di intese su servizi, merci, capitali, cittadini, di contratti di scambio preferenziali, e via dicendo verrebbero a cadere. Insomma si verificherebbe una tabula rasa legale che la legislazione britannica dovrebbe improvvisamente e velocemente preoccuparsi di riempire. Uno scenario di incertezza disastroso.
Per limitarne l'impatto, la GB avrebbe un'altra strada. Quella chiedere di entrare nell'Area economica Europea, come la Norvegia, nell'idea che ciò le permetterebbe di conservare molti dei vantaggi dell'appartenere all'area dell'Unione (un mercato interno unico e l'unione doganale) e quindi di dare continuità al proprio business. La cosa ha però un rovescio della medaglia: lo svantaggio di dover applicare le tariffe agevolate ai paesi terzi senza la garanzia della reciprocità. E continuando a contribuire al budget europeo senza potere metterci bocca.
Infine anche una terza via nel day after del referendum non avrebbe cammino facile: quella della negoziazione del “dopo” con la stessa Europa, la quale avendo un surplus commerciale con la GB sarebbe - secondo l'opinione inglese - molto ben disposta a farlo. Errore di valutazione enorme, dicono al Ceps. Intanto l'Europa sarà molto seccata del danno di reputazione inflitto dalla Brexit e non avrà voglia di correre a trattare; in secondo luogo, una soluzione troppo facile del problema potrebbe dare un cattivo esempio ad altri che pensano di seguire le orme britanniche. Soprattutto, la Ue potrebbe approfittare dell'occasione per fare concorrenza alla GB proprio sui fronti che Londra vuole proteggere: il ruolo della City sui mercati finanziari e la capacità di attirare investimenti.
La pretesa britannica di mantenere il libero movimento delle merci, dei servizi e dei capitali, ma restringendo il libro movimento delle persone, è impossibile da accettare per la Ue. E d'altra parte aumentare le barriere burocratiche a chi chiede di lavorare in Gb avrebbe come risposta europea la creazione di barriere simili verso gli inglesi, rendendo il mercato del lavoro più rigido. Cosa ne sarebbe poi delle garanzie di assistenza oggi assicurate ai cittadini britannici in pensione che hanno scelto di vivere nei più caldi paesi del Sud dell'Europa? E i giovani che sempre più numerosi scelgono l'Erasmus? Certo quelli delle scuole britanniche si ritroverebbero con un taglio dei budget a disposizione.
Infine, scegliendo di diventare un “paese terzo”, la Gb rischierebbe di essere marginalizzato su tutta una serie di fronti di business, sottolinea il Ceps. Quali? Nel settore digitale, in cui la Ue è il protagonista nel disegnare le nuove regole, dall'e-commerce alle tasse sui giganti del web. Nel settore dell'energia, dove la Ue sta lavorando a network che garantiscano i paesi membri da crisi di approvvigionamento e black-out. Nel “public procurement”, cioè il mercato delle forniture pubbliche, in cui oggi la Gran Bretagna è molto attiva, ma da cui potrebbe essere tagliata fuori.
Anche sul fronte della politica estera Londra avrebbe da perdere con la Brexit: Obama si è dichiarato contrario, e altrettanto ha fatto la Cina. L'unico a pronunciarsi a favore? Putin, che vede con soddisfazione l'indebolimento dell'Europa.
L'ultima notazione del Ceps riguarda la Scozia. Cosa succederebbe se la Scozia votasse per restare, e l'Inghilterra per la secessione? Che si innescherebbe una ulteriore spinta ad un'altra secessione, questa volta scozzese, per aderire all'Europa. E poi verrebbe l'Irlanda, e poi il contagio alla Catalogna... Ma ci hanno pensato bene a Londra?