Orari infernali e stipendi ridicoli: così l’Italia fa scappare gli infermieri

Turni massacranti, professionalità non riconosciute e retribuzioni basse rispetto ai colleghi europei. Per questo i laureati fuggono e sempre meno giovani si avviano alla professione

Pochi, mal pagati e stanchi. L’Italia sta vivendo da anni una crisi del comparto infermieristico che non accenna a migliorare. Secondo la fotografia scattata dalla fondazione Gimbe guidata da Nino Cartabellotta il nostro Paese perde 10mila professionisti l’anno e precipita nelle classifiche europee per numero di laureati e retribuzioni. Nel 2022, secondo gli ultimi dati disponibili del ministero della Salute, il personale infermieristico contava 302.841 unità, di cui 268.013 dipendenti del Sistema sanitario nazionale. Solo nel triennio 2020-2022 gli infermieri che hanno abbandonato volontariamente il Ssn sono stati 16.192, demotivati da ritmi infernali e salari inadeguati. Gli stipendi italiani infatti sono tra i più bassi d’Europa: si parla di 1.500-1.600 euro al mese. Nino Cartabellotta non fa fatica a riconoscere che «l’Italia offre salari da fame e contratti rigidi, a fronte di responsabilità crescenti e turni insostenibili». Gli fa eco il presidente del Nursing Up, sindacato infermieri italiani, Antonio De Palma: «Tra gli stipendi italiani e quelli di altri Paesi Ue c’è una differenza di almeno 800 euro» e lamenta che «solo l’Europa dell’Est, la Grecia e il Portogallo fanno peggio». Inoltre, il nostro Paese, tra quelli europei, è quello con meno infermieri: 6,5 ogni mille abitanti.

 

Per Cartabellotta è impossibile fare stime precise su quanti operatori sanitari manchino: «Si tratta di svariate decine di migliaia e il fabbisogno reale è destinato a crescere, considerando anche l’invecchiamento della popolazione italiana che aumenta la domanda di assistenza», precisa. Secondo De Palma invece ne mancano circa 175mila, «ormai è una professione che sta scomparendo». A dimostrazione di questo, i sempre meno iscritti ai corsi di laurea in scienze infermieristiche.

 

Il sogno di essere un dipendente pubblico sta sempre più svanendo: l’offerta dal Sistema sanitario nazionale è tutt’altro che sufficiente e non garantisce uno stile di vita dignitoso. Non sorprende, allora, che i giovani scelgano altre strade. «Oggi lavorare in cooperativa o con partita Iva offre più vantaggi: maggiore flessibilità, meno burocrazia, possibilità di rifiutare turni e, quasi sempre, compensi più alti. Oltre 60mila infermieri italiani lavorano in questo modo», spiega Cartabellotta.

 

Parlano proprio di questo le scelte lavorative di Maria Maddalena Annibale, 32 anni, libera professionista. Laureata prima in ostetricia e poi in infermieristica, ora lavora con partita Iva per una Spa che ha la gestione di un appalto che si occupa di assistenza domiciliare a Napoli. Prima di lavorare in questo contesto è stata dipendente in aziende ospedaliere convenzionate del territorio; ha avuto contratti part time, full time, a tempo determinato e no. Giornate di lavoro infinite, carichi di lavoro elevati sia per la carenza di personale sia perché ancora troppo spesso il lavoro dell’infermiere viene parificato a quello dell’Oss. «Dovessi fare solo il mio lavoro, quello che per legge è previsto, il carico sarebbe comunque pesante, ma fattibile», spiega. E aggiunge: «Ora mi gestisco da sola: tempi, ritmi, guadagni che sono ben maggiori di un collega turnista in ospedale. Tornare a lavorare nel pubblico vorrebbe dire fare dieci passi indietro».

 

Altra problematica è che agli infermieri non è riconosciuta una specializzazione: è l’ospedale a decidere in quale reparto impiegarli in base alle esigenze della struttura. Non tenendo conto di attitudini e conoscenze. Un sistema, quindi, fallimentare su più fronti. «L’Italia non solo non è in grado di trattenere i propri infermieri, ma sembra quasi spingerli a cercare altrove condizioni di vita e lavoro più dignitose», dice Cartabellotta. Molti decidono di trasferirsi all’estero. La Germania, ad esempio, garantisce spazi per fare carriera che in Italia non esistono. Per le assunzioni conta solo il curriculum e lo stipendio medio si aggira intorno ai 2.400 euro. Alessandro Coltella, 35 anni, romano, da sei anni lavora a Darmstadt, in Germania, dopo essersi laureato in infermieristica a Roma. 

 

Coltella fin da subito ha capito che un percorso pubblico in Italia non poteva fare al caso suo. Così si è affidato a un’agenzia che recluta infermieri italiani per farli assumere in Germania. Una bella sorpresa fin da subito: un soggiorno pagato nella città per conoscere l’ospedale e per capire in che contesto avrebbe lavorato con un contratto a tempo indeterminato. Ha studiato per otto mesi tedesco poi, passato l’esame di lingua, requisito obbligatorio per far partire la macchina, si è trasferito. L’ospedale gli ha anche trovato una stanza, in uno studentato, a una cifra ragionevole. Per i primi sei mesi è stato affidato a un tutor e, avendo dimostrato in questo periodo di essere all’altezza del ruolo, l’ospedale lo ha assunto. «La Germania offre la possibilità di evolverti sempre, in modo completamente gratuito», dice Coltella che dopo due anni dal suo arrivo è diventato infermiere specializzato in terapia intensiva e anestesia. Un titolo che gli ha portato vantaggi non solo a livello professionale, ma anche economici. «In sei anni ho raggiunto una qualità di lavoro completamente diversa da quella a cui potevo aspirare in Italia. Non posso escludere un ritorno nel mio Paese, ma purtroppo non c’è un’offerta tale da farmi mettere in discussione quello che ho ora», racconta con un accenno di rammarico il 35enne. Esperienza simile quella di Kristine Mae Kasala, 30 anni, in Germania dal 2019, dopo essersi laureata a Roma nel 2017. Anche lei è infermiera specializzata in terapia intensiva e anestesia in un ospedale di Francoforte. «Qui c’è collaborazione e rispetto per le professioni, ricordo che in Italia c’era molta differenza tra infermieri e medici», dice Mae Kasala. «Quando sono arrivata lo stipendio base per un neo infermiere era di 2.737 euro lordi al mese, ora è salito a 3.334 euro, in 6 anni è aumentato di 600 euro», ha spiegato. Essendoci carenza di personale, lo Stato fa questo per incentivare la professione.

 

Anche l’Inghilterra è molto attenta al settore infermieristico. Manlio Panza, infermiere a Londra, da prima della Brexit, si è laureato in Italia e si è spostato nel Regno Unito per riuscire a conciliare la sua professione, la musica e il desiderio di creare una famiglia. Secondo Panza, l’Inghilterra «offre molto di più per il futuro dei giovani». Il guadagno medio di un infermiere è di circa 2.000 sterline nette al mese, a cui si aggiungono bonus e straordinari. «Lo stipendio di un mio collega che in Italia ha un contratto full time, io lo percepisco lavorando tre giorni alla settimana», dice l’infermiere. 

 

Far rientrare l’Italia in questi standard potrebbe non essere così complicato. Retribuzioni più alte, miglioramento delle condizioni di lavoro, valorizzazione dei percorsi di carriera e politiche di welfare dedicate. Misure per evitare che la fuga degli infermieri diventi inarrestabile. Secondo il presidente della Fondazione Gimbe «senza questi interventi non riusciremo nemmeno a coprire il normale turn over, figuriamoci a costruire la sanità del futuro», conclude Cartabellotta.

LEGGI ANCHE

L'E COMMUNITY

Entra nella nostra community Whatsapp

L'edicola

Siamo tutti complici - Cosa c'è nel nuovo numero dell'Espresso