Le autorità egiziane non collaborano con ?gli investigatori italiani. E tengono alta la cortina ?di nebbia sull’assassinio del ricercatore. ?Così ora la famiglia ha deciso di muoversi. ?Per ottenere un segnale forte dal governo di Roma

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Il corpo del giovane Giulio Regeni parla. Rivela le torture subite durante i giorni trascorsi segregato in un covo del Cairo. E chiede giustizia. Le ferite mostrano le atrocità di cui è stato vittima per otto giorni e la frattura alla vertebra cervicale indica la causa della sua uccisione. Muore così, in Egitto, un giovane studente italiano che si era trasferito al Cairo per una ricerca di dottorato sui diritti dei lavoratori e i sindacati egiziani. Coloro che lo hanno torturato erano professionisti. Forse cercavano informazioni che Giulio non era in grado di fornire perché lui era un semplice ricercatore universitario. Ma le autorità egiziane non indagano su chi lo ha torturato e ucciso. Hanno indirizzato l’inchiesta soltanto sulla vita di Giulio, sulle persone che frequentava e intervistava per la sua ricerca di dottorato e su eventuali informazioni che può aver inviato fuori dall’Egitto, alla sua università a Londra. Nulla è stato cercato su chi lo abbia tenuto segregato per nove giorni, torturandolo e uccidendolo. Di questo aspetto gli uomini del presidente al Sisi sembrano non occuparsi.

È trascorso un mese dal ritrovamento del corpo in un fossato alla periferia della capitale egiziana e abbiamo assistito solo a depistaggi, abbiamo ascoltato false notizie. Le istituzioni egiziane non rispondono alle richieste di atti avanzate dai magistrati italiani, non c’è una vera collaborazione fra gli investigatori del Cairo e il team di poliziotti e carabinieri inviati dai pm di Roma con una precisa delega della procura della Repubblica che indaga sull’uccisione di Regeni.

Non è bastata ad esempio la rogatoria fatta partire dall’Italia nelle scorse settimane per ottenere la relazione dei medici egiziani che hanno eseguito l’autopsia, i verbali dei testimoni che sono stati sentiti, i tabulati del telefonino usato dal ricercatore, i filmati delle telecamere installate alla fermata della metropolitana e attorno all’abitazione del giovane friulano ed eventuali intercettazioni. Nulla di tutto ciò è stato condiviso con gli investigatori italiani. Forse perché le modalità del rapimento, la lunga segregazione e le torture indelebili sul corpo del ricercatore, al Cairo fanno pensare che può essere stata la mano di apparati legati al governo di al Sisi. E così il caso Regeni viene avvolto dal buio di Stato. Compreso quello italiano, che finora non ha agito come la famiglia vorrebbe.

Nel nostro paese il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, ripete che «l’Italia chiede semplicemente a un paese alleato la verità e la punizione dei colpevoli». «Non ci accontenteremo di una verità di comodo né di piste improbabili», aggiunge. Il premier Matteo Renzi è intervenuto con un comunicato dopo diciassette giorni dalla scoperta del cadavere di Giulio per dire: «Noi dagli amici vogliamo la verità, sempre, anche quando fa male. Vogliamo i responsabili, quelli veri, con nome e cognome, e vogliamo che paghino. Abbiamo promesso alla mamma e al papà di Giulio che saremmo andati in fondo e confermo che non faremo nessun passo indietro».

È stato forse il termine “amici” utilizzato da Renzi per indicare gli egiziani a far drizzare le orecchie a Paola e Claudio Regeni, i genitori di Giulio. L’ultima volta che hanno sentito il presidente del Consiglio era il 4 febbraio, prima ancora che il corpo del giovane friulano venisse riconosciuto ufficialmente al Cairo. Da allora nessun messaggio è più arrivato dal premier alla famiglia del giovane friulano, che in queste settimane ha atteso un chiaro e forte segnale indirizzato all’Egitto da parte di Renzi. Da Renzi, ora, i genitori di Giulio si aspettano quindi una mossa, un gesto che possa dare loro fiducia. E vogliono appellarsi direttamente a Renzi, scrivendogli una lettera e invitandolo a compiere passi concreti nei confronti del paese guidato da al Sisi.

L’Egitto ha rapporti solidi con l’Italia. A maggior ragione, avrebbe dovuto accelerare le indagini su un omicidio che gli uomini di al Sisi continuano incredibilmente a definire “incidente”. Sarebbe stato importante analizzare subito i tabulati e le celle a cui si è agganciato il telefonino di Giulio e quindi condividere con i nostri investigatori i dati raccolti. Non è stato fatto forse perché contengono informazioni che il governo egiziano si vergogna a mostrare?
L’ambasciatore dell’Egitto in Italia, Amr Helmy, la scorsa settimana ha ricevuto una delegazione dei manifestanti che avevano organizzato un sit-in davanti all’ambasciata a Roma. Accompagnati dall’avvocato della famiglia Regeni, Alessandra Ballerini, hanno potuto parlare con l’ambasciatore i deputati di Sel Nicola Fratoianni e Michele Piras e l’ex ministro Paolo Ferrero.

Durante l’incontro, l’ambasciatore ha messo in evidenza la contemporaneità della visita al Cairo del ministro dello Sviluppo Economico, Federica Guidi, con la scoperta del corpo di Giulio Regeni, facendo intendere come non sia stata proprio una coincidenza. La mattina del 3 febbraio al ministro Guidi il presidente al Sisi assicura la propria «personale attenzione» al caso dello studente scomparso: poche ore dopo il corpo di Giulio viene ritrovato vicino a un cavalcavia della strada desertica Cairo-Alessandria. Il sito del giornale egiziano “Al Watan” riporta la notizia e scrive che sul corpo del ragazzo ci sono «segni di tortura». Poche ore dopo un altro sito filogovernativo, “Al Youm7”, non parla invece di tortura e riporta le dichiarazioni del direttore dell’amministrazione generale delle indagini di Giza, il generale Khaled Shalabi, il quale «indica che le indagini preliminari parlano di un incidente stradale».

L’ambasciatore Helmy insomma ha fatto intendere alla delegazione dei manifestanti che non conviene agli italiani sollevare questo caso perché ci sono molti interessi economici e istituzionali in gioco fra i due Paesi. Poi ha voluto sottolineare che in questa storia «non sono coinvolti i servizi segreti egiziani, perché non ci sono sul corpo di Regeni segni di scariche elettriche». Un’implicita e agghiacciante ammissione di come i servizi egiziani trattano gli arrestati.

L’Egitto continua a negare e l’Italia resta ancora a guardare e a farsi prendere in giro dagli «amici», mentre la mamma e il papà di Giulio sperano ancora in un gesto forte di Renzi che tarda ad arrivare.